LE TRADIZIONI RELIGIOSE

Tradizione e invenzione sono due fonti che insieme alimentano la religione di un popolo. È quasi ormai impossibile disgiungere se non distinguere i due momenti e identificare le cause soprattutto in fase genetica. Così l’istituzione s’impadronisce dell’evento originario a livello di popolo, e da questo coltivato ed alimentato, ne razionalizza le forme di sviluppo e conservazione, pur senza intervenire in modo tale da scoraggiare o esaurire l’inesausta sorgente della pietà. 

Presso le popolazioni rurali, la teologia del soprannaturale cristiano rimase a lungo legata a credenze e pratiche religiose. Tutto il modo di vita contadino veniva condotto in stretto rapporto di dipendenza con la natura, condizionato da insicurezze e bisogni economici. Il contadino veneto, nel mistero della natura aveva scoperto il “divino” e fondato il sentimento di abbandono e di ricorso a Dio. Il mistero della natura s’inabissava nel mistero di Dio. Al prete, tramite più autorevole con il cielo, spettava il compito di propiziare gli elementi della natura, in quanto egli era depositario del sacro e ministro del culto. Il sacro comprendeva diverse categorie e ne avevano il carisma gli oggetti e gli avvenimenti più svariati: essi dovevano condizionare e garantire, dare sicurezza alla vita umana e animale, al ripetersi del regolare ciclo vegetativo.

Ma era soprattutto nel culto che il paradigma religioso si realizzava: alle azioni dell’individuo dava un significato di vissuto che poteva, e di norma lo era, essere strettamente legato alla collettività. Ogni attività veniva posta sotto la protezione dei santi. Aveva inizio il 2 gennaio con la festa di S. Bovo: la comunità portava in chiesa il sale per gli animali (unica ricchezza) che il parroco benediceva dopo aver celebrato la santa messa; seguiva per tutta la settimana la benedizione delle stalle, casa per casa. Il 5 gennaio, vigilia dell’Epifania la comunità si riuniva nelle ore pomeridiane in chiesa dove veniva benedetta l’acqua contenuta in un grande recipiente, da cui i fedeli attingevano per portarne a casa e serviva per gli ammalati e i moribondi; in chiesa l’acqua benedetta era per i battesimi.

Seguivano in aprile le Rogazioni, processioni penitenziali propiziatrici per l’agricoltura che svolgendosi al canto delle litanie dei santi e con opportuna liturgia, si dividevano in maggiori e minori: le prime ricorrevano il 25 aprile giorno di S. Marco, le minori avevano luogo nelle mattinate dei tre giorni che precedevano la festa dell’Ascensione e, prendendo avvio dalla chiesa, osservavano tre percorsi diversi camminando lentamente lungo i confini dei campi, nelle capezzagne, dove venivano poste le croci fatte dagli uomini nelle stalle “a filò” durante l’inverno. Tutti i santi e le sante, i misteri del Signore, una serie articolata e precisa di “Ut” supplichevoli (singole domande di grazie per tutti i vivi e i morti, i dignitari della chiesa e i poveri cristiani) avevano il loro posto nella litania, scandita a ritmi lenti che concedevano qualche adito alla riflessione e alla distrazione offerta dalla natura in fiore. E la gente rispondeva: libera nos Domine all’eventualità di pericoli e disgrazie “a fulgore et tempestate“, “a subitanea et improvvisa morte“, “a peste fame et bello“…

Il percorso della rogazione a Vo’:

Primo giorno: alle 5.30 Gino Napi suonava la campana e poi la piccola processione partiva dalla Chiesa con don Giovanni e i “mocoli” (chierichetti) che tenevano il cesto per le offerte (quasi sempre uova prese dall’altarino durante le fermate). Si saliva lungo via Carbonara, si girava per il “buso de Biran” ora via Monte dei Martiri e si discendeva giù verso il molino Bonamin, quindi una lunga fermata nell’aia dei Rossi e si proseguiva fermandosi nelle corti dove in ognuna era stato eretto un altarino. Lungo i confini delle proprietà si mettevano le crocette fatte dagli uomini a filò. Il mondo cristiano agli inizi coprì di croci la campagna, specialmente ai confini, agli incroci, al centro del villaggio. Sebbene siano pochi gli esempi rintracciabili, tuttavia permettono di avanzare ipotesi sulla loro presenza, sulla ristrutturazione del sacro secondo un criterio che doveva fare delle croci inserite nella linea di confine, un caposaldo dello schieramento difensivo. Croci si ponevano anche sopra il tetto dei casoni, le ben note abitazioni di paglia (contro il fulmine e il fuoco), ora scomparse.

Secondo giorno: si discendeva dalla chiesa e si proseguiva attraverso la contrada con le fermate nelle corti: dalla Malgari, dai De Guio, dai Guarda lungo via Pontesei (ora Colombo) fino all’incrocio con la Parrocchia di S. Vito. Al ritorno sempre per la stessa via si raggiungeva la scuola materna dove veniva celebrata la Santa Messa.

Terzo giorno: il cammino si faceva in bicicletta con fermata alla Casetta nelle corti Caldonazzo, Fracasso, Lovato, poi si proseguiva fino al Capitello delle Rondole dove veniva celebrata la Messa. Veniva ripreso il cammino fino al Mulino del Sole quindi sempre lungo i confini camminando lungo le capezzagne fino alla corte dei Cisco, Martelletto, Massignan, si faceva ritorno nel pomeriggio.

 

Diverso era il percorso per S.Vito.

Primo giorno: dalla vecchia Chiesa, ora proprietà privata, si risaliva lungo via chiesa fino al lavandaro dove si faceva la prima sosta. Quindi si discendeva verso il cimitero rientrando per la S. Messa.

Secondo giorno: dalla Chiesa la processione muoveva lungo l’attuale via Lampertico con una sosta in corte dei Brendolan. Quindi si proseguiva verso i Polo e si discendeva verso la corte dei Zerbato e dei Marini fino alle Cavecchie. Il ritorno veniva fatto attraverso il molino dei Menon in salita.

Terzo giorno: dalla Chiesa sempre per la via omonima si proseguiva in salita lungo l’attuale via S. Vito e si raggiungeva il confine con il Comune di Grancona discendendo lungo la via che si collegava con la strada comunale di Grancona seguendo sempre il confine.

 

Per S. Michele l’itinerario era:

Primo giorno: dalla Chiesa si passava a fianco le mura di villa Veronese, via Guarenti, via S. Valentino, poi al Cerro per via Dante, Revese, dove veniva celebrata la messa nell’omonimo oratorio, ritorno per via Valle, Scalette di via Valle, via S. Marcello, Piazzetta del Vicariato, via Roma, Chiesa di S. Michele.

Secondo giorno: dalla Chiesa al Lavo, poi via Pasubio, via Costa, via Scaranto, Priara, via Grotte, via Monterosso, via Marascion nel cui capitello si celebrava la S. Messa, ritorno per via S. Valentino, via Costa, via Guarenti, chiesa di S. Michele.

Terzo giorno: dalla Chiesa per via Castello, via Spesse fino a casa “Raffaello Effidiani”, via Muraroni, via Goia con celebrazione della S. Messa al capitello, ritorno per via Valle, via Secole, Chiesa S. Michele.  

 

Oggi, l’abbandono dell’agricoltura di un tempo da una parte, orari, stili e ritmi di vita diffusamente mutati dall’altra, hanno sottratto al popolo credente questo momento unificante delle persone e delle famiglie, dei piccoli con i grandi, dei contadini con gli altri lavoratori, della terra con l’uomo che la considerava a pieno titolo la sua casa. Restano ancora in parte munite di un significato arcaico che non tutti riescono a percepire, ma alla suggestione delle quali pochi resistono come le processioni. Sono ancora quelle del venerdì santo, funerale del Cristo morto, quella del Corpus Domini e quelle della Madonna in occasione della festa patronale. A Brendola, delle quattro parrocchie, due sono dedicate alla Madonna: “Del Carmelo” al 15 di luglio e l’Assunta il 15 di agosto. Una processione votiva che coinvolge tutto il paese è quella dedicata a S. Rocco il 3 marzo. Poiché tradizione e invenzione sono due fonti che insieme alimentano e incrementano la religione di un popolo, è quasi impossibile disgiungere se non distinguere i due momenti e identificarne le cause soprattutto in fase genetica. Così l’istituzione s’impadronisce dell’evento originario a livello di popolo e da questo coltivato ed alimentato, ne razionalizza le forme di sviluppo e conservazione pur senza intervenire in modo tale da scoraggiare o esaurire l’inesausta sorgente della pietà. Alla realtà dell’evento prodigioso o comunque straordinario, collegato con l’immagine prima, il sacello o capitello, o l’edificio di culto poi, si collega l’impegno morale, ascetico, spirituale e insieme fisico penitenziale del Pellegrinaggio. Il significato originario del pellegrinaggio è simbolo compiuto dell’esistenza umana, concepita come una marcia ora lenta, ora veloce di risalita da questa “valle di lacrime” alla sommità luminosa del cielo. C’erano per secoli pellegrini occasionali che facevano del viaggio al santuario vicino o lontano, modesto o famoso un’occasione di speciali preghiere e di penitenza sacramentale (a Brendola l’otto settembre veniva festeggiato con un pellegrinaggio alla chiesetta di Salve Regina immersa nei boschi ai confini con Brendola, costruita da padre Bianchini dei Gesuiti di Monte Berico). E c’era il pellegrino quotidiano in servizio permanente attivo; il viandante e mendicante che sgranava una dopo l’altra le strade campestri, le case disseminate per la campagna; la corona del rosario e un santino in una mano e il sacchetto per la farina in un’altra, e bussava salutando nel nome di Cristo, trovava quasi sempre un po’ di cibo e nella stalla d’inverno o nel fienile una cuccia calda e rassicurante. Erano uomini liberi (come “el poareto de Valmarana”) dalla necessità del lavoro, della casa, del parentado, soggetti però a tutte le servitù: del pane, dell’abitato, dell’alloggio. Solidarietà cristiana praticata in modo spontaneo e concreto nelle campagne e contrade, aveva foggiato quei poveri agli occhi del popolo non ricco, come altrettante immagini di Cristo bisognoso.

Le confraternite del Rosario e del S.S. Sacramento

Derivavano da confraternite mariane medioevali evolutesi sotto la spinta della Riforma Tridentina (Concilio di Trento) dopo la decadenza della II metà del ‘400 e primo ‘500. Le persone che entravano nella Confraternita dovevano essere “de bona fama” e al momento della loro entrata erano iscritte nei libri della Compagnia. Vengono ricordati gli obblighi della confessione e della comunione, il dovere di accompagnare alla sepoltura i morti, fratelli e sorelle, la partecipazione alle processioni con la “CAPPA”, da cui deriva il nome “CAP-PATI “, coloro che aprivano le processioni. I confratelli indossavano un camice di tela costanza bianca lungo fino al tallone con maniche discretamente larghe cadenti nell’estremità, cinto ai fianchi da un cingolo.

La Confraternita, anche se formata da profani aveva come scopo essenziale e primario la salute delle anime, intorno alla quale si delineavano tutte le attività anche di ordine economico, sociale. Era una vera società organica regolata da statuti che non sempre avevano una redazione scritta.

Le Confraternite rurali dove maggiore era la spontaneità si inserivano anche fisicamente nel tessuto sociale durante le processioni, che venivano preparate con molta cura. Così anche le processioni avevano un ordine: al primo posto un Gonfaloniere con la croce e ai due lati due ragazzi vestiti di “cotta e violetta” portavano il candeliere con candela accesa, uno a destra l’altro a sinistra. Seguivano a due a due tutti i fanciulli a discreta distanza gli uni dagli altri, camminando silenziosi e devoti senza mai interrompere la processione. Succedevano gli uomini in egual ordine con devozione e compostezza (quelli che non appartenevano alla confraternita). Dietro a questi i “fratelli aggregati” con la loro candela accesa, cui faceva seguito il venerabile corpo dei fratelli cappati preceduti da uno di essi portante il lanternone, dietro cui veniva lo stendardo portato con “gravità” da un gonfaloniere (eletto per questo dai fratelli onorari).

Dopo lo stendardo seguiva il Crocefisso grande con due fanali ai suoi lati. Seguivano i fratelli con la loro uniforme e con una candela accesa e per maggior decenza le mani dovevano essere “guarnite” di guanti bianchi. Finalmente il baldacchino scortato da quattro candelotti (2 davanti e 2 dietro). Dietro a questo seguivano i cantori. Dopo questi seguiva la processione delle donne: prima le consorelle con la candela accesa in mano, infine ordinate le fanciulle e le donne chiudevano la processione.

 

Le processioni dovevano avere luogo: 

La sera del venerdì santo.

La solennità del Corpus Domini.

La solennità del Santo Rosario di Maria Vergine la cui immagine sacra era portata dai Fratelli Onorari. Queste regole erano dettate dalla curia vescovile il 10 Maggio 1880.

Santi protettori delle attività produttive (artigianali e commerciali) nella Repubblica Veneta:

Barbieri = Santi Cosma e Damiano

Calzolai = S. Aviano

Bottari = S. Tommaso di Canterbury

Calderai = S. Giovanni Battista

Carbonai = S. Lorenzo

Casari = S. Giacomo

Cestari = S. Biagio

Fornai = Re Magi

Fruttivendoli = S. Giosafat Laveri

Materassai = S. Bernardino da Siena

Limaroli = Santi Filippo, Giacomo ed Apollonia

Mazzini o Mozzanti = S. Antonio Abate

Marangoni ( falegnami) = S. Giuseppe

Muratori o Murari = Santi Tommaso e Magno

Oresi, Orefici = S. Antonio Abate

Sarti o Sartori = Santi Barbara e Omobono

Segatori o Segati = S. Isidoro di Siviglia

Caregheta = S. Osvaldo

Tajapiera = S.ti Coronati

Terrassieri (pavimenti) = S. Guelfardo.