L’ALIMENTAZIONE E I COSTUMI

Il cibo e la sua produzione hanno cadenzato profondamente lo svolgersi del tempo e segnato la scansione degli eventi. Le tradizioni culinarie, le modalità di coltivazione e utilizzazione degli alimenti hanno rappresentato un complesso sistema di simboli e di valori che rischiano, in questo momento d’abbondanza e di progresso tecnologico, di scomparire.

La storia dell’umanità è legata all’alimentazione e il sapere in questo campo si è sedimentato in tradizioni tramandate nel tempo. Tradizioni non statiche, ma ricche di varianti, per rendere il cibo sempre più gradevole sfruttando tutte le opportunità.

Il territorio vicentino, che comprende pianura, colli, valli e altopiano e che offre colture diverse in base al clima, ha favorito lo sviluppo di una ricca gamma di ricette. Questa varietà di piatti non dipendeva dal fatto che il cibo era ricco e abbondante, ma dal bisogno di non trascurare nessuna risorsa commestibile, integrando prodotti più preziosi con altri più poveri rendendoli più appetibili e nello stesso tempo rompendone la monotonia.

 “EL MAGNARE”

I pasti erano basati sui cibi offerti dalla stagione o segnati dal ciclo dell’anno ed erano perciò regolati da un preciso rituale che seguiva le regole dell’anno liturgico: dal vènare gnocolaro del venerdì grasso ai bigoli co òjo e sardèla del mercoledì delle ceneri, dalle fuasse della settimana santa alla bondola co la léngua del giorno dell’Ascensione, per finire coi bìgoli co l’arna della festa del Rosario (prima domenica d’ottobre) e con il rosto de osèi della festa dei Santi. Quello dei nostri nonni era un mangiare povero, ma nello stesso tempo ricco di sapori autentici. Non si tratta certo di rimpiangere il passato con la sua miseria e povertà, ma di recuperare ciò che c’era di positivo: la semplicità dell’alimentazione e la rigorosa stagionalità dei cibi. Anche allora esistevano modalità di conservazione dei cibi per l’inverno, ma si trattava di procedimenti poco elaborati che utilizzavano principalmente il sale e l’aceto. Il sale usato soprattutto per la conservazione degli insaccati di maiale e dei crauti conservati nel brènto, un mastello di legno; e l’aceto usato per conservare in composta le tegoline (fagiolini), le verze e le téghe de pévare (peperoni lunghi).

Come impianto frigorifero erano utilizzate le giazare che erano pubbliche. La giazara era una costruzione bassa, circolare, seminterrata, una specie di pozzo profondo circa quattro cinque metri e largo quattro dove d’inverno si accumulava il ghiaccio raccolto nel fiumicello. La riserva di ghiaccio doveva durare fino all’inverno successivo perciò veniva usata con parsimonia e protetta con sacchi. A Brendola c’erano quattro giazare: una a Vo’, tuttora visibile lungo la strada delle Asse o Via Verdi, una in Valle nella villa Anguissola, una nel retro di Loggia Piovene e l’ultima a Casavalle.  

Una caratteristica quindi della cucina del passato era l’uso di cibi freschi. I mesi più poveri erano quelli dell’ultima parte dell’inverno e dell’inizio della primavera. Erano mesi di vera quaresima perché le provviste cominciavano a scarseggiare e poteva capitare di aver da magnare gnénte sènsa polènta. In questo periodo si ricercavano e si consumavano molte erbe spontanee, soprattutto pisacàn, che si trovavano con abbondanza dappertutto; e in caso di bisogno ci si faceva prestare dal vicino un po’ di frumento o di sorgo, contando di restituirlo col nuovo raccolto, oppure per rimediare la cena si andava a pescare i marsoni con l’ovèga lungo le rogge. L’ovèga era una specie di retino che s’immergeva nell’acqua e nel quale il pesce restava impigliato. Un tempo si faceva molto affidamento sulla possibilità di integrare le risorse ricavate dalla coltura della terra con quelle ottenute dai fiumi. L’insediamento di Vo’, per esempio, fu dovuto almeno in parte alla ricchezza di pesce delle rogge.  

A Brendola c’era anche chi pescava il pesce per venderlo, come Pippo Graziadio che passava di contrada in contrada, armato di secchi e bigòlo a vendere pesce gatto, marsoni, rane, anguille, frìtura e tutto ciò che riusciva a pescare nei fossi e nel laghetto. La zona di Vo’ era rifornita da Rigolon (Madocola) e dal genero di questi: Ilario Ongaro (detto Marina). Quando l’inquinamento del Fiumicello fece assottigliare la presenza del pesce, comparve in paese un “pesaro” proveniente dalla bassa padovana, era munito di una moto con cassone posteriore in cui era contenuto il pesce: c’erano trote, anguille, peseto per la frittura e qualche volta “vitello di mare”. Il suo passaggio avveniva nel periodo invernale e nei periodi di avvento e quaresima, quando si praticava una stretta astinenza dalle carni. Il pesce si trovava deposto su blocchi di ghiaccio che dovevano conservarlo fresco il più a lungo possibile. Non erano molte le famiglie che si potevano permettere l’acquisto di questa merce, ma molti cercavano di risparmiare limitandosi sulla quantità.  

La base dell’alimentazione era data non dal pane come oggi, ma dalla polenta che saziava con facilità e poteva essere mangiata da tutti, anche dai vecchi senza denti. Pochi pasti erano accompagnati dal pane. Pure la colazione del mattino era a base di fette di polenta e late. Ancora oggi è un cibo molto amato dalla nostra gente anche se ora ha caratteristiche più uniformi. In passato, invece, ognuno era attento a farsi ritornare dal mugnaio la farina che gli aveva dato e quindi c’erano farine di differenti qualità in ogni casa.

Inoltre era un po’ più oleosa perché il germe non veniva separato dai grani come si fa oggigiorno per ricavare olio di mais, e veniva cotta sulla fiamma del focolare. Si utilizzava un paiolo che, per evitare che ondeggiasse nel rimestare, veniva fermato da un soco, una specie di ceppo di legno rivestito di lamiera. Il pane, invece, anche se da sempre alimento fondamentale nella storia dell’umanità, basti pensare al forte valore simbolico che ha assunto sia nei riti religiosi sia nei detti popolari, era considerato un cibo quasi di lusso, eppure raramente mancava nelle ceste appese al soffitto dove veniva conservato. Quasi ogni casa aveva il suo forno, inoltre c’erano forni che cuocevano il pane per venderlo.

A Brendola c’erano tre forni pubblici: uno al Lavo dove iniziava l’acquedotto (ora Via Marzari) uno in Valle vicino alla villa Anguissola e il terzo a Casavalle.

Anche a Vo’ ce n’erano tre: il forno Graser, detto Crestan, il forno Bedin, che allora era situato sotto villa Maffei e il forno Lovato alla Canova.

A San Vito ce n’erano due: il forno Menon e quello delle Cavecchie.

Ogni 10-15 giorni si cuoceva un’infornata di pane nel forno della contrada dopo aver preso accordi coi vicini così da non sprecare troppa legna per riscaldarlo e poter fare più infornate possibili. All’inizio della settimana si preparava la legna del sottobosco o le fascine ottenute dalla brusca delle vigne.

Fare il pane era un lavoro lungo e pesante, ma che, pur aggiungendosi agli altri ne spezzava il ritmo e, soprattutto dai bambini, era vissuto come un avvenimento rituale pieno di gioia. Si cominciava la sera prima impastando il levà, preparato aggiungendo alla farina un pugno di pasta lievitata ed acida. L’impasto era poi messo dentro una tovaglia e posto in una cesta in un luogo caldo, che d’inverno era la stalla. La mattina seguente sulla mèsa (una cassa rettangolare senza coperchio) s’impastava la farina con l’acqua e si aggiungeva il sale e il levà, e solo dopo aver ben lavorato la pasta si preparavano dei pezzi di pane detti ciòpe. 

Il piatto centrale del mezzogiorno, e spesso l’unico, era la minestra, il minestron o la pastasciutta, a volte gli gnocchi. Naturalmente essendo piatti spesso unici si faceva replica anche due o tre volte. Il brodo era considerato troppo leggero e si dava ai malati o prima del rosto de osèi. La pasta, sia quella per la pastasciutta sia quella per la minestra, era fatta in casa con uova e farina di frumento, non si utilizzava mai il grano duro come oggi. L’impasto veniva lavorato sulla tòla da tajadèle e poi tirata in uno strato sottile con la méscola. Più la massaia era brava più riusciva ad ottenere una sfoglia sottile e perfettamente rotonda, senza strappi. Era necessario fare in fretta per evitare che la pasta si seccasse. Infine si arrotolava la sfoglia spolverata di farina gialla e si tagliava a strisce della larghezza desiderata: un centimetro per le lasagne, uno o due millimetri per le tajadèle. A volte sempre con lo stesso impasto, solo un po’ più consistente, si facevano i bìgoli col tòrcio o i gargati, pasta rigata e bucata simili ai sedanini.

Le lasagne e i bìgoli erano conditi con la conserva di pomodoro, ma più spesso col desfrito, un condimento preparato con un pezzo di lardo tagliato a pezzi e della cipolla finemente affettata cotti molto lentamente in un tegame di coccio con poca acqua e poco sale per almeno una o due ore, rimestando spesso in modo che il grasso non si rosolasse. La domenica del Rosario (prima domenica d’ottobre) si mangiavano i bìgoli co l’arna. Erano spaghetti cotti nel brodo d’anitra e conditi con un consiéro fatto con le frattaglie e qualche pezzo di carne: “Arna lésa e bìgolo tondo, a la sèra i conténta el mondo“, come a dire che l’anitra lessa e gli spaghetti rotondi erano cibi raffinati che di sera soddisfavano anche i più schizzinosi. Più raramente si mangiava il riso che veniva comprato in bottega e cotto nelle minestre insieme alla pasta. Durante i venerdì di Quaresima, giorni di ma- gro, i bigòli venivano consumati con le sardine sotto sale scaldate con un po’ d’olio (bigòli co òjo e sardèla). Per variare i tipi di cibo, ma soprattutto per risparmiare la farina di grano così preziosa si preparavano gli gnòchi de patate. Piatto molto gradito, anche se più laborioso, condito con burro fuso leggermente rosolato, grana, zucchero e cannella (gnòchi co sùcaro e canèla).

Un altro piatto tipico della tradizione contadina parsimoniosa era la panà o zuppa di pane. Oggi buttiamo via il pane avanzato, una volta sarebbe stato inconcepibile uno spreco simile: il pane raffermo veniva messo a bagno nell’acqua e poi cotto con un po’ di burro e formaggio grana. La carne, a parte quella di maiale e del pollame, veniva mangiata raramente.

In genere veniva comprata a Pasqua per fare il brodo. Durante l’anno, invece, alla domenica si mangiava il polastro in técia. Molto apprezzati erano poi i capponi, i tacchini e i conigli. Pietanza tipicamente autunnale era la paéta al malgaragno, cotta allo spiedo e bagnata col succo di melagrana, come dice il detto “co in novembre el vin no se pi mosto, la paéta la se pronta par el ròsto“. Durante gli altri giorni della settimana si mangiava carne di maiale con parsimonia. Non si trattava di carne fresca, ma di insaccati. D’altra parte non c’erano frigoriferi per la conservazione e tutto veniva insaccato. Per capire quanto antica sia questa tradizione basti pensare che il nostro termine luganega (salsiccia) deriva dal latino “lucanica”, che indicava una salsiccia della Lucania (Basilicata).  

I dolci non erano concepiti come un piatto che concludeva il pasto, ma come un completamento e a volte addirittura come unico piatto. Di solito i dolci venivano preparati in particolari momenti o festività: i grùstoli e le frìtole durante il periodo del carnevale quando c’era abbondanza di strutto, visto che il maiale era stato macellato da poco; le fugase (focacce) durante la settimana santa; il busolà, una ciambella preparata con farina, uova, molto zucchero, latte, uva passa, sale, lievito e un po’ di grappa, quando si andava in pellegrinaggio o ci si allontanava per lavoro (era un piatto unico da mangiare al sacco). La putana, fatta con latte, farina sia bianca sia gialla, fichi secchi, fettine di mela, uova e strutto, era il dolce tipico dei giorni di lisia sia perché erano giorni in cui le massaie avevano poco tempo per preparare da mangiare, sia perché facendo bollire grandi quantità d’acqua c’erano braci e cenere in abbondanza. Una volta, infatti, non si usava il forno e per cucinare le torte, distribuendo il calore in modo uniforme, si poneva il tegame coperto su un treppiede, quindi sotto e sopra venivano messe delle braci e della cenere.  

Riscoprire e riprendere tante tradizioni povere del nostro passato può aiutarci a ritrovare una dimensione di uomini semplici. E sono gli atti semplici come accendere il focolare o la stufa, tagliare l’erba, spaccare la legna e cucinare il cibo a rendere l’uomo semplice.

“EL VESTIRE”

Una volta c’erano solo due tipi di vestiti: quello per la festa e quello per tutti i giorni, e questo valeva per tutti, dai piccoli ai grandi. Il vestito di tutti i giorni era fatto in casa. Anche a Brendola c’era la coltivazione della canapa e del lino e le donne d’inverno durante il filò nelle stalle filavano, sferruzzavano e rattoppavano. Il filato ottenuto, piuttosto grezzo e irregolare, veniva portato dalle tesare che tessevano su telai a mano.

C’erano due tessitrici: una abitava a Brendola (Ina Ranghiero), e l’altra a San Vito. C’era una tessitrice anche a San Gottardo cui molti si rivolgevano. I tessuti che non venivano usati per la biancheria venivano tinti di scuro usando la corteccia di castagno o la fuliggine dei camini. Il modo di vestire non variava con il susseguirsi delle stagioni, diventava solo più leggero: si passava, infatti, dal tessuto di mezza lana a quello di mezza canapa. L’abbigliamento maschile comprendeva una camisa di canapa o di moleton di cotone grezzo senza colletto e con le maniche lunghe che d’estate venivano rimboccate. Al collo, per proteggerlo dalla polvere e dal sudore, portavano annodato un fazzoletto dai colori vivaci. I pantaloni erano fatti con tessuti comprati dal marzaro (merciaio) che con la sua bicicletta carica di stoffe girava per le corti, ed erano sostenuti da una cinghia o, per i più poveri, da uno spago. Non mancava mai il gilè senza maniche fatto nella parte anteriore con la stessa stoffa della giacca e nella parte posteriore con la sola fodera. Era chiuso da una fila di piccoli bottoni e aveva tre taschini tutti uguali che servivano a contenere il tabacco e la pipa per chi fumava o la tabacchiera per chi fiutava il tabacco, e il cortèlo da scarsela. Sopra il gilet portavano la giacca. Le calze erano di lana fatte in casa con i feri da calse. La parte dei calcagni, più soggetta a logoramento, era staccabile per cui poteva essere rifatta nuova. Ai piedi calzavano le sgàlmare con la tomaia di cuoio grezzo e la suola rigida di legno con i broconi sotto per non consumarle: tenevano i piedi asciutti e caldi, ma erano molto rumorose e segno di povertà. In testa portavano, in qualsiasi stagione, il cappello; lo toglievano solo in chiesa in segno di rispetto.

D’inverno, sopra i vestiti, mettevano il tabaro, un lungo mantello di panno pesante. Il vestito della festa era fatto nello stesso modo, ma era più curato e soprattutto non consumato.  

Le donne portavano la còtola (gonna) di colore scuro, lunga fino alle caviglie, fatta di cànevo o di tela, sopra il corpéto o la blusa di lana o cotone ben attillati in vita. Sopra la còtola mettevano sempre la travèrsa (grembiule) lunga come la gonna: la toglievano solo per andare al mercato o a messa. La funzione della traversa era di impedire che la gonna si sporcasse, ma serviva anche come contenitore per il becchime per i polli, e come ciapìn (presina) per togliere le pegnate dal fuoco. Le ragazze e le bambine infilavano sopra il vestito dei traversoni senza maniche che si allacciavano dietro. Sotto la gonna indossavano i mutandoni lunghi fino al ginocchio e aperti nella parte centrale. In testa portavano sempre un fazzoletto di colore scuro annodato davanti o sulla nuca.

D’inverno, sulle spalle, si mettevano lo scialle di stoffa con le frange di ciniglia o lavorato a maglia. Ai piedi calzavano gli zoccoli di legno o le sgalmare. Le ragazze più benestanti d’estate portavano gli strevi, sandali con una striscia di cuoio, ma quasi tutti andavano scalzi. Le donne tenevano i capelli lunghi e li raccoglievano in uno chignon chiamato cocòn formato da una treccia arrotolata sulla nuca e fissata con delle forcine o con dei piccoli pettini ricurvi. In genere gli unici ornamenti d’oro erano le bùcole (orecchini) e la fede nuziale se erano sposate. La mentalità contadina era pratica e non ammetteva fronzoli. La donna aveva un compito fondamentale nell’economia familiare: era lei il perno della casa, per questo era importante che fosse laboriosa, sana e senza grilli per la testa.  

La dote (il corredo da sposa) era ridotto all’essenziale: dieci lenzuola, dieci federe, dieci canovacci per asciugarsi, due materassi, uno di lana l’altro di piume d’oca, poche coperte di lana grezza bianche o a strisce rosse dette sciavine perché venivano dalla Jugoslavia, un’imbottita (formata da due strati di cotone imbottiti di spelaja ottenuta coi resti dei bachi da seta), una trapunta di piume d’oca.

Per insegnare alle ragazze a ricamare la dote esisteva a Brendola una scuola di ricamo tenuta a casa della signorina Ina Beltrame che abitava vicino alla chiesa di San Michele, dove ora abita il signor Sgolmin. C’erano anche due sorelle (le signorine Crespine) che ricamavano e preparavano corredi su ordinazione. Più tardi, nel 1930, le suore istituirono una scuola di lavoro in villa Veronese: insegnavano a ricamare e a fare dei fiori con le perline con cui componevano delle corone per i morti che vendevano in Francia.