Vo' 

MEMORIA STORICA

VITTORIA ROSSI

Dal centro di Revese percorrendo la strada alberata delle Asse, dopo un chilometro si raggiunge la contrada di Vò. E’ situata lungo un corso d’acqua che trae la sua origine dalle risorgive e dalla raccolta di acque filtrate dal Guà. Il Vo’ è un caratteristico insediamento a “corte” risalente all’epoca longobarda la cui presenza nel Veneto copre un’area di tempo molto esteso: dalla seconda metà del VI secolo alla fine dell’VIII secolo. La primissima fase dell’occupazione longobarda ha avuto un carattere prevalentemente militare e di conquista soprattutto in relazione alla forte pressione bizantina. Positivo fu l’intervento longobardo nelle campagne poiché sul piano spaziale rappresentava un recupero delle strutture urbane e della armatura territoriale (castelli) e sul piano economico anziché esprimere un decadimento di tipo barbarico, determinò in realtà un’inversione di tendenza rispetto al generale sfaldamento del sistema agricolo – urbano degli ultimi secoli dell’impero romano. Quindi l’azione esercitata sul settore agricolo si può così esprimere: un tipo di intervento procedente dal basso che tendeva a favorire la piccola proprietà attuando forme di colonizzazione dirette, correlate da piccoli nuclei di insediamento come nel caso della contrada di Vò, spesso con il recupero delle strutture fondiarie preesistenti. A conferma della presenza longobarda è il ritrovamento di tombe di guerrieri longobardi scoperte nel 1905 durante i lavori sul Monte dei Martiri per la costruzione di un edificio adibito a stalla (in quell’anno infatti lo straripamento del Guà aveva raggiunto anche il Fiumicello allagando l’abitato delle corti).

PERIODO VENEZIANO

Il dominio di Venezia, a partire dal 1404, favorì come ovunque il passaggio della grande proprietà terriera alla nobiltà veneziana che vi prese possesso punteggiando di ville la zona, conservando però il carattere rurale nello stile di vita, le sue tradizioni, ma anche per altri aspetti non ultimo quello religioso devozionale, che qui si adeguò senza difficoltà. Venezia riconquistata la terraferma dopo Cambrai, si interessò più da vicino alla regolamentazione idraulica del suo territorio, avvalendosi anche dell’esperienza che aveva maturato nei secoli fra le lagune ove era stata sua primaria preoccupazione quella di conservare il delicatissimo equilibrio tra acqua e terra. Ogni intervento idraulico a Venezia dipendeva da apposite magistrature chiamate ” Magistrato sopra i beni inculti”. Questi pensieri furono al centro dei pensieri di Alvise Cornaro. La sua lezione che additava nella bonifica delle campagne e nella ” santa agricoltura” la via da seguire per dare un nuovo impulso a Venezia, fu accolta con entusiasmo da molti ricchi provinciali che diedero le basi di un nuovo modo di vita, legato non più al mare e ai commerci relativi, ma alla terra e all’agricoltura. L’ottica con cui dalla terra dei “Padri” si guardava sempre più alla terraferma sarà frutto degli originali apporti della terra stessa la quale ebbe in Alvise Cornaro il suo portavoce più prestigioso e sarà merito dello stesso se il capitalismo veneziano andò ad inserirsi in acquisti fondiari e in molteplici bonifiche che costituiranno il fondamento della sua stabilità futura. Si spiega così come nel ‘500 grazie alla ” securitas ” garantita da Venezia ai territori sottoposti al suo dominio, si sia assistito ad una capillare diffusione delle ville e case padronali che diventano i nuclei vitali e le tappe avanzate di una originale civiltà. Ma Venezia, città di mercanti per eccellenza, conservò più di ogni altra lo spirito borghese tipico dell’età comunale. Nei suoi costumi di vita, nella sua arte continueranno a manifestarsi esigenze largamente diffuse fra i cittadini di una regione che, se pur aristocratici, suddividevano il potere in vario grado e in vario modo, tenendo conto in sostanza soprattutto della ricchezza; con le ville segnano e rappresentano la “costruzione urbanistica ” del territorio rurale e tutte le altre componenti : le unità produttive gerarchicamente decrescenti, le residenze sparse, i borghi, il disegno relazionalizzante dei canali, degli argini, delle nuove strade vicinali.

LA CONTRADA

Prima della dominazione veneziana l’architettura di terraferma corrispondeva al sistema di vita precario causa guerre ed invasioni. L’abitazione aveva la forma di una capanna con il tetto di paglia : i casoni ( toponimo antichissimo ), presenti anche al Vò lungo la via ora Giotto. Sorgevano in posizione isolata per la sicurezza e in vicinanza di rogge da cui traevano l’alimento cioè il pesce. Con Venezia la casa divenne un ricovero più sicuro : costruita in mattoni e pietra. Le abitazioni erano allineate una accanto all’altra con il crescere della famiglia e disposte a ” pettine ” lungo il fiume. Avevano una cucina al piano terra chiamata ” casa ” e la stanza da letto al primo piano. Animali da cortile ed i servizi si trovavano in ” casotti ” precari di là della corte. Capofamiglia era la madre (” quando in te na fameia manca el timon l’è na casa che va de rabalton “) è una casa che ha come centro il focolare , simbolo della guida cui tutti devono obbedire per poter vivere. La casa quindi come sinonimo di ordine morale, di costume.

Famiglia Lovato

La situazione abitativa e delle contrade diventa molto più chiara e precisa attraverso gli estimi del 1546, del 1665 e del 1670 che rilevano la presenza di :

  • Contrà Ronzola o Ranzola con un discreto numero di abitazioni;cinque sono gli edifici dei territoriali nel Balanzon; due sono di proprietà della famiglia “Salvestro Vinante”. A Vinante dei Vinanti appartiene il terreno sulla riva destra della Ronzola, confinante con gli stabili e le consistenti proprietà dei Ferramosca, con i campi e con un modesto edificio di Maria Zelita Bissognin. Ai Bisognini appartiene anche un terreno alla sorgente della Renzola confinante con la proprietà Lenoro Valmarana, unico cittadino in contrà della Renzola, proprietario di un edificio acquistato da Ludovico Brutto Revese
  • Contrà di Arcomagna. Si chiama ancora oggi con lo stesso nome la campagna compresa tra la Ronzola e l’Anguzzolo, affluenti del Fiume Brendola, controllata allora da Iseppo Ferramosca con tre complessi e da Cesare Ferramosca abitante in Venezia, con lavoratori come Vicenzo Pilla e Nicolò Chiarello. Quattro sono gli edifici dei distrettuali, due di Gregorio Muraro quondam Antonio, due di Giacomo di Corsi quondam Zuanne.
  • La Fangosa, è il territorio alla destra dell’Arcomagna, attraversato da una strada che, affiancata dalla roggia Risarola conduce dalla attuale via Palladio al Fiume Brendola. Avevano proprietà ed edifici il conte Pietro Anguissola.
  • Il Vo’, contrà ai piedi del Monte dei Martiri, conta nel 1545 ventisette territoriali, un cittadino e quattro aggiunti. Il magnifico misser Marco Antonio di Gu, Chimento de Zordani, Bartholamio e Menegin Muraro, i Della Gema, i Moretto, fratelli Scalabrin, il conte GioPaulo Porto, I Revese ed i Bornigoni sono tutti nomi importanti. Si deve aggiungere il ” Reverendo Monastero di San Rocco” proprietario di una casa dominicale con un brolo con cinque campi e due case per lavoranti, il tutto affittato a Francesco Martinello. Inoltre le “Reverende Monache di Santa Teresa di Vicenza possiedono una casa da copo con solaro, dui cassi teza da paglia, e una casa murata cuppata e solarata de due camare, cassi tre teza murata e cupata con terra”.

Al Vò una delle prime famiglie veneziane che si insediò fu quella dei Giustiniani dove Bernardo, il fondatore della dinastia, vide qui la possibilità di sviluppare l’agricoltura per la presenza di terreni pingui, ricchi di rogge e risorgive. Testimonianza della presenza di questa famiglia è lo stemma gentilizio posto sopra il piccolo portale d’entrata al portico che conduce alla casa padronale (ora proprietà Rossi Oreste). L’edificio riparato a nord e a mattina dal monte dei Martiri ha la facciata rivolta a mezzogiorno delimitata da un cordone in pietra d’Istria segnata da una grande aia a mattoni. Il complesso è separato dalla strada da un alto muraglione, anticipato dalla Ghiacciaia o Giazzara. Questa è una costruzione interna alla proprietà a forma di cono ricoperta da folta vegetazione con la porta sulla strada. E’ formata da un pozzo poco profondo: si scendeva con una scaletta dove attorno ai sedili in pietra venivano poste le vivande da conservare per tutta la comunità. Pezzi di ghiaccio avvolti in coperte funzionavano da freezer. Davanti alla Giazzara il Mulino antico opificio che si serviva della forza idraulica (energia pulita e senza prezzo ): bastava stare attenti alle ruote e ai passaggi forzati che non vi fossero erbe in modo che il livello dell’acqua fosse sempre costante. Da tempo è fermo: non si sente più l’attrito delle ruote e non si vede più il movimento dei carretti trainati da un cavallo o un asino che trasportavano all’andata i sacchi di granoturco o di frumento ed al ritorno i carichi di farina bianca per il pane e di farina gialla per la polenta. Dietro al molino c’era la segheria per il taglio dei tronchi d’albero che forniva tavole da lavoro. Un tempo la presenza della contrada lungo via dell’Asse era indicata da un capitello molto antico e demolito nell’800. Al suo posto oggi un cippo indica i nomi di due caduti uccisi durante l’occupazione nazista ( 1943-1944): Fasolo Angelo e Maria Ojani. Dopo il molino c’era l’antica “bevarara” ombreggiata all’estate da un enorme olmo stroncato da un temporale il 26 luglio 1927. Da allora l’ombra non c’è più né copre i ragazzi che con le loro grida si divertivano a sguazzare dentro l’acqua limpida del Fiumicello.

Giuseppe Lovato e Nardi Oliva

LA GENTE E L’AMBIENTE

L’ambiente non si comprende se ci si limita alla catalogazione pure indispensabile: occorre affinare la visione, cercando di cogliere quanto di indicibile, inudibile, invisibile, senza tempo è pure presente. L’ambiente è la trama immateriale che tiene insieme i rapporti e dà senso alla vita, facendo di una comunità un insieme di persone che condividono una cultura fatta di conoscenze sapienziali e di vincoli imposti da un remotissimo patto originario. Si sa poco di questo primo potere che cattura le persone, comunque giunte in un luogo, e nel breve volgere di qualche generazione le radica. E’ il misterioso potere del sito che si esercita in modo certo e indimostrabile su chiunque nasce in terra, ovunque. Così che da mille particolari una cultura giunge a distinguersi da ogni altra. A distanza di secoli permane l’eco dei lievi rumori nella campagna fonda, i suoni rinchiusi dentro alla bottega dell’artigiano rurale: il fabbro, il maniscalco, il carradore, il bottaio, il ramaio. Si può così arrivare a una mappa onomastica fitta di cognomi che ci rendono l’intensa rete di attività artigiane un tempo legate alla vita contadina. Più giusto ancora sarebbe affiancare alla genericità del cognome anagrafico il Blasone che la comunità stessa ha coniato per distinguere in modo più apprezzabile ogni famiglia e ogni ramo.

Ecco l’elenco dei Protagonisti delle corti del “Vecio Vò”:
Luisa Mano (mestra mano) ha insegnato a più generazioni. Era la moglie di Bonamin.
Bonamin Antonio (toni mestra – munaro)
Casalin Bepi (munaro)
Viale Guerrino (segato)
Feltre Bepi e suo figlio Gino (scartosin)
Costa Berto (boaro)
Zaupa Isa
Costa Maria (maria grassa)
Graser Domenico (menego crestan) falegname poi fornaro
Rigolon Giovanni (joan dordo) carrettiere
Lombarda Michele (bracciante)
Muffarotto Silvia –Riccardo Agno
Cunico Domenico (menote pastorelo) sua sorella Uci Pastorelo
Pellizzari Gusto (cana)
Rigon Angelina (materassaia)
Murzio Bruno (falegname)
Squaquara Anna (aneta rigona)
Rigon Bepi (mostacina) fabbro e maniscalco
Rigon Carlotta
Mantoan Adele (sarta di fino)
Nappi Gino (sacrista)
Pretto Eugenio (genio) e Ina (barbiera)
Pretto Piero (piero de genio) bottega, emporio, casolin:sale tabacchi bolli chinino pignatte pezze vestiti scarpe merceria stoffe
Nardi Mario (mario macaciodi) macellaio
Dovigo Bepi (mola) e Isa del Mola
Girardi Emilio (autista)
Calori Vittorio (el maresciallo)
Girardi Mario (marietto) meccanico
Zadra Bortolo con due figli Agostino (gustinelo) fabbro, lattoniere, rabdomante e Angelo (angeleti) meccanico moto e biciclette
Zerbato Cice (gnoco e figlioToni (gnoco) meccanico
Zerbato Bepi (bepi lusian) sarte e barbiere
Zerbato Pierina (pierina luziana)
Pellizzari Angelo (sopela) barbiere
Encio Menele – Santo Gnoco barboni accampati stabilmente sull’angolo dell’aia del paron Nano Rossi con il cane cuchi
Pretto Malgari locanda e osteria – Ilario (osteria e corte de bale)
Ati Toni (procaccia) prelevava la posta ad Alte ogni mattina
Selmo Gino (bracciante)
Rigolon Attilio (stradino)
Caldonazzo Naldo e figlio Piero (scarpari)
Vezzaro Anna (annetta vallalta)
Peloso Piero (vedelaro specialista in innesti)
Muffarotto Massimiliano (gnagno trutela) carrettiere
Edoardo Semaggio
Baldan Ada Calori
Tonon Bijo (contadino) e suo figlio Toni Emo
Bedin Angelo(fornaio, casolin) e Bedin Ettore (oste)
Crestanello Silvio,Vittoria, Beta e Berto (muratore)
Calori Naldo (mediatore)

Dopo il ponte a sinistra:
La corte dei Pellizzari (biondi)
Toni Pellizzari (toni biondo) sarte e barbiere
Muffarotto Piero
Corte dei Lovato (poldi) Silvio, Neni, Vittorio, Brigida
Ongaro Angelo (marina) pescatore
Bauce Nano (falegname)
Bauce Ferruccio (carradore)
Bauce Apollonia (polonia bauce)
Mattiello Emilia e Attilia (osteria)
Bisognin Angelo (aio) mazzante
Bisognin Vincenzo
Lovato Bijo detto Bisognin Bijo
Lovato Silvio (aiutante campanaro)
Bisognin Bepi (campanaro)
Tamion Maria (maria campanara)
Fasolo Cicillo (ortolano e melonaro) e sua moglie Pina
Bon Francesco (checo) ortolano

Sul Monte dei Martiri:
Giuseppina Fongaro zia di Guerrino
Il vecchio Farinelo rientrato dal Brasile con la figlia

LA FAMIGLIA ED IL LAVORO

Il lavoro costituiva una dura legge e una ricchezza specie per i nullatenenti. Purtroppo non sempre il salario soddisfava l’esigenza della vita di allora, sicuramente molto modesta. Il risparmio era una legge dettata dalla fatica che costava mettere insieme la roba:” Se non si vuol spendere conserva bene ogni cosa perché il vecchio salva il nuovo”; non c’era arnese che non potesse servire ancora.

Brigida Bisognin

La donna era il centro della casa: la sua competenza sugli animali, con la sola eccezione di quelli da stalla curati dagli uomini, si estendeva fino all’allevamento periodico dei bachi da seta che tanta parte hanno avuto nell’economia dell’impresa contadina. Nella parlata veneta i bachi da seta si definiscono “cavalieri”. La loro semenza veniva comprata a once, disposta su una carta blu traforata. Erano piccoli e bianchi, e si aiutavano a crescere per 40 giorni dentro la grande o piccola cucina contadina dove, tolta la porta si metteva una coperta per evitare correnti d’aria e sgombrata per la circostanza da tavole e sedie. La stanza si riempiva della catasta di tralicci sovrapposti sorta di lettiere con una intelaiatura rettangolare in legno e un graticcio di canne sottili. E “cavalieri” lo erano davvero. Non tanto per quel loro procedere ondivago che forse aveva motivato il nome, ma perché volevano di continuo foglie di gelso fresche e pulite, volevano essere seguiti e serviti fino a quando si disponevano ad abbozzolarsi nelle “galete” bianche o gialle.
Più di ogni altro animale impegnavano l’intera famiglia: gli uomini che si mettevano in spalla una scala a libro tenendo sulla destra il “cortelazzo” e andavano a roncare i morari; i ragazzi che aiutavano a trascinare in casa i rami di foglie lucide, mentre donne e ragazze disponevano le frasche sui graticci, e le più vecchie facevano ardere una fascina sul focolare per tenere giusta la temperatura nella stanza. Uomini, donne e ragazzi erano sempre impegnati e sempre attenti al volgere del tempo. Una burrasca improvvisa, un vento gelido poteva essere fatale per quelle delicate creature dalla bava preziosa. ” Cavalieri ” i bachi da seta lo erano anche per una sostanziale ragione. Sulle loro piccole groppe trasportavano una quantità di merci che altrimenti non sarebbero potute arrivare dentro la casa contadina. Il pagamento dei bozzoli consegnati all’essicatoio, pure se andava diviso con il padrone dei campi, metteva finalmente in mano al capo di casa del denaro contante. Nella famiglia contadina votata all’autosussistenza il denaro si vedeva in poche occasioni. Mangiare si poteva quasi sempre, tra l’orto, i salami e i lardi del maiale domestico, la farina da polenta, il pane biscotto conservato in ceste appese alla travatura della cucina, e la pesca di “scardole e marsoni” lungo il Fiumicello e la Risarola. Per i piccoli acquisti di zucchero, fiammiferi, riso, tabacco, sale e conserva, era possibile far fronte barattando le uova di qualche giorno.

Venditore di pezze

Ma per la tela da camicie e da lenzuola di “canevo” per qualche metro di fustagno o di panno grosso per il tabarro, per qualche paia di scarpe ( che non fossero le sgalmare per i ragazzi e i “sopei o strevi” per le donne) o un cappello da festa per gli uomini, ci volevano soldi in mano. Ed erano tutti a premere, le donne per i loro lavori, gli uomini per l’ambizione di mostrarsi in chiesa e in osteria la domenica. E i cavalieri portavano i soldi finalmente. Il capo di casa li andava a ritirare alla Cassa di Risparmio e li contava due o tre volte prima di metterli via. Ora tutto è cambiato, naturalmente. Ci sono più soldi e più fierezza. Il rapporto con la tradizione è mutato in tanti elementi essenziali. Non solo nei lavori e nelle relazioni. Ce lo dicono anche i cambiamenti nei rapporti tra i vivi e i morti: con la totale eliminazione della pratica della veglia nel rituale funerario. Ora che per lo più si muore in ospedale si fanno i funerali di corsa “per sole automobili”.

Funerale di Feloce De Guio, 1953

La continua crescente domanda di sepolture in pietra, marmo, siano loculi individuali o sacelli familiari, è un’altra dimostrazione sociale del bisogno di identità che si è rivelato preponderante con l’espansione del reddito e la liberazione dalle strettezze. Col reddito familiare non è cresciuta la ” pietas “, il senso dell’iniziale congiunzione di tutte le cose in Dio. Sembra che il sollievo di un maggiore benessere materiale debba per forza avere il prezzo di un affievolirsi della visione comunitaria.

PERIODO NAPOLEONICO E DOMINAZIONE AUSTRIACA

I grandi rivolgimenti politici dovuti all’illuminismo del sec. XIX, sono di così vasta portata al cui confronto la storia della contrada del Vò è simile a un granellino di sabbia in un deserto. A parte le malattie infettive ricorrenti, della cui origine è difficile sapere (soldati di passaggio o mercanti), ma che sicuramente ebbero un gran peso sulla tranquillità della nostra contrada, quasi completamente dedicata alla coltura dei campi e all’allevamento del baco da seta. Ma i rapidi scambi commerciali e le aumentate esigenze di vita certamente influenzarono e determinarono un cambiamento di vita della popolazione abituata da secoli sotto la Repubblica Veneta a vivere di tradizioni e in pace. La vita amministrativa della popolazione si era abituata all’osservanza degli antichi statuti che così saggiamente gestivano la democrazia “in loco” con i propri usi e consuetudini. Il grande sconvolgitore fu naturalmente Napoleone. Il 27 aprile 1797 si instaurava in Vicenza il Governo Provvisorio Democratico e il 17 maggio dello stesso anno cadeva definitivamente la saggia e gloriosa Repubblica Veneta con il trattato di Campoformio.

Il regio decreto del 6 dicembre 1806 dà origine alla compilazione della Mappa d’avvio e del relativo Sommarione per tutto il territorio veneto. La commissione censuaria del dipartimento del Bacchiglione completa entro il 1809 la carta di Brendola. Gli edifici rilevati in Brendola appartengono a 1715 proprietari e qui viene riprodotto un particolare della mappa.  

La vita nei primi tempi non mutò molto e le innovazioni furono poche. In seguito vennero anni difficili con i proclami del governo napoleonico. Questi tendevano a screditare tutto ciò che era stato fatto dalla Serenissima definendo tale governo una tirannia. Il periodo ottocentesco definito per brevità coincidente con la dominazione austriaca, anche se con la parentesi incisiva della fase napoleonica, è caratterizzato da un lato dall’accentuarsi di fenomeni regressivi, in particolare nel contesto rurale, già manifestatisi nel periodo precedente, dall’altro di fenomeni nuovi di tipo infrastrutturale(le grandi vie di comunicazione) e di tipo industriale. Le nostre popolazioni erano in continuo fermento contro questo tirannico dominio. Venne istituita dal governo francese per mantenere l’esercito in permanente stato di guerra contro tutte le nazioni “il dazio decima”. Detta tassazione, non l’unica certamente emessa dai francesi, fece esplodere una sollevazione popolare: questa non era altro che una grave tassa sul “macinato”. Il 5 novembre 1813 con il tramonto napoleonico, iniziato nel 1812 con la campagna di Russia e conclusasi nel 1815 con la conseguente Restaurazione Europea, ritornarono gli austriaci imponendo un nuovo tipo di ordine amministrativo che stabiliva la vendita di tutti i beni comunali incolti con la seguente motivazione:” ..onde allontanare ogni ostacolo alla migliore loro coltivazione”.

NUOVI PROPRIETARI

Occorre far risalire alla prima metà del settecento il cambiamento dei proprietari terrieri al Vò. I terreni del Vò dopo il breve passaggio dei Giustiniani passarono nelle mani dei Porto. Questa grande famiglia con tutte le sue diramazioni ( Colleoni, Brazzà, Capra, Breganze, Trissino) possedeva terreni in quasi tutta la provincia vicentina: da nord (Thiene – Dueville – Malo) a Vicenza con via Porti ed a sud a Brendola, nonché a Udine con i Brazzà. L’ultimo fu Giovanbattista Bernardino che in data 26 luglio 1814 stilava il testamento nella sua casa di contrà Porti. Così l’immensa proprietà veniva suddivisa fra le varie diramazioni prima ed in seguito dalla metà ottocento in poi fu ceduta ai vari fittavoli ed acquirenti venuti anche dall’Altipiano come la famiglia De Guio scesa da Roana. Già nel ‘700 la famiglia dei Facchini proprietari da S. Vito di Leguzzano si erano trasferiti a Brendola in Piazza a lato della Chiesa di S. Michele. In seguito nel 1842 i tre fratelli Facchini Domenico, Giuseppe, Giobatta acquistarono la “Carbonara appartenuta sin dal 1787 ai Conventi – Rosa. Una famiglia che si distinse non solo al Vò ma anche in tutta Brendola fu quella di Gianbattista Ziggiotti che, proveniente da Restena di Arzignano, aveva fatto una sostanza con l’industria della trattura della seta. (Sui portali, ora Matteazzi e Ghiotto, ad indicare la proprietà sta una grande Z in ferro battuto). Una delle tre figlie dello Ziggiotti era andata sposa a Francesco Maffei: portò in dote una ricca proprietà al Vò costituita da una vasta estensione di terreni e case che per tutto l’ottocento e una parte del ‘900 diedero lavoro a tante famiglie. L’altra grande fattoria che dava la possibilità di vivere era quella dei Monza, poi Rossi.

LA FILOSSERA E SUE CONSEGUENZE

Dopo l’oidio si diffuse la fillossera, malattia specifica della vite, appartenente all’ordine degli insetti Emitteri ed alla famiglia degli Afidi. Essa non esisteva nel continente antico sino a tutta la prima metà dell’ottocento, e fu il più grande dei flagelli che minacciò di una completa distruzione la viticoltura europea. Poco dopo il 1860 nell’Europa centrale infieriva la crittogama della vite e per cercare un mezzo di difesa dal crudele flagello, si cominciarono a portare in Europa delle viti americane, che sembravano forti, vigorose e più resistenti. Ma il rimedio fu infinitamente peggiore del male per cui si portò in tal modo , con le viti americane, il terribile afide. In pochi anni, dal 1868, Francia e Austria assistettero alla distruzione completa dei loro vigneti, senza che si potesse opporre alcun ostacolo al cammino trionfale del malefico insetto, il quale veniva aiutato nella sua diffusione inconsciamente dall’uomo stesso.

Ernesto De Guio e la “caponara”.

Questo portò al Vò una dura necessità: quella dell’emigrazione. Fu così che un certo Guerrino Fongaro, oriundo arzignanese, offrì lavoro nella sua impresa di costruzioni situata in una località vicina a Tolosa nella Francia meridionale. Partirono tanti capifamiglia, preferendo un luogo vicino piuttosto che l’emigrazione transoceanica lontana e costosa.

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Un altro duro colpo per le famiglie della nostra contrada fu la partenza dei giovani all’inizio del primo conflitto mondiale. Veniva tolta in tal modo energia lavorativa alle famiglie. Il lavoro bracciantile veniva fatto dalle donne e dagli uomini esclusi dalla chiamata alle armi. E poiché gli stati alleati Francia ed Inghilterra durante il conflitto avevano inviato un corpo di spedizione, dislocando uno stato maggiore in casa Rossi, gli abitanti del Vò usufruirono di derrate alimentari dell’esercito.

Ufficiali inglesi con Ottaviano Rossi a destra e Nano Rossi a sinistra

Il dopoguerra fu caratterizzato da lotte sociali che finirono con l’appiccare il fuoco anche a pagliai manifestando così la rabbia contro i grossi proprietari terrieri. Negli anni ’20 a seguito della caduta degli imperi centrali e della recessione gravissima in cui incorsero quelle economie si assistette ad uno sconvolgimento generale nelle aree di sbocco della nostra manodopera verso l’Europa. Ancora una volta fu in direzione della Francia, bisognosa di braccia per le falcidie di uomini subite nel corso della guerra, che si spostarono allora migliaia di veneti e friulani tra i quali molti della nostra contrada.

LA SCUOLA

In passato la scuola appariva come un’attività che teneva i ragazzi poco utilmente impegnati sia perché non dava risultati tangibili e sia perché i suoi insegnamenti in pratica non servivano molto per le necessità quotidiane. Anche quando la frequenza scolastica divenne obbligatoria fino alla quinta elementare, a casa, per fare i compiti i ragazzi erano abbandonati a se stessi senza un ambiente adatto. Questi erano molto utili se non indispensabili nei lavori autunnali (la vendemmia) o primaverili (le semine) e per le ragazze c’erano i lavori casalinghi. Inoltre dal Vo’ gli “studenti” dovevano salire in paese a Brendola per frequentare la scuola e soprattutto d’inverno il cammino era difficoltoso. Ma nel 1913 anche il Vo’ ebbe la sua scuola con tre grandi aule in un edificio lungo il fiumicello vicino alla pesa pubblica. L’insegnamento era praticato da due maestre: una anziana ed una giovane. La prima era la maestra Mano che insegnava alle prime due classi, la seconda la maestra Amozina Cabianca giovane, molto istruita che faceva dell’insegnamento una missione. Abitava dalla Malgari ed era diventata una vera e propria istituzione. Lei sapeva tutto di tutti, viveva tra gli altri con certa distinzione, ma anche si sacrificava per essi, dedicandosi a tutte le iniziative e collaborando nel catechismo e nelle altre opere parrocchiali. Per essa tutti avevano una rispettosa riconoscenza.

LATTERIA SOCIALE

Questo nuovo servizio (1930), patrocinato dai soci fondatori: dott. Filippo Maffei, Giovanni Brendolan, ing. Giuseppe Rossi, Rigon Emilio, sorse per la presenza di grandi allevamenti con bovine da latte presenti nella frazione Vo’ e S. Vito. L’edificio sorse in un’area consorziale lungo il fiumicello. Vi si portava, si ridistribuiva e si lavorava il latte nel locale più importante per ottenere il burro e il formaggio. In un secondo locale si teneva il formaggio a maturare e stagionare. Al piano superiore c’era l’abitazione del “casaro”. A questo lavoro si sono succeduti i Frigo (latari) provenienti da Trissino, gli Zaupa ( Santa, Giuliano e Vittorio) dopo i quali la latteria venne chiusa ed i soci passarono a Montebello.

LE TORBIERE

Anche nel Veneto durante la seconda guerra mondiale la necessità di combustibili per le industrie ed i trasporti si era fatta sentire dopo le sanzioni (1935) che avevano bloccato le importazioni dall’estero. Fu questo il motivo che indusse alcuni cavatori a chiedere il permesso di scavo nell’area del Palù a Brendola. Così vennero aperte tre torbiere: la Zaccaria, la Donà, la Rossi. Quest’ultima era la più estesa e profonda (più ricca di materiale torboso) che è finita con la formazione di un laghetto. L’escavo veniva fatto in tre fasi: togliere il cappello di terra di circa 50 cm e trasferirlo su dei carrelli nei campi vicini per innalzarli, tagliare la torba a blocchi con una vanga ad angolo, trasferire i blocchi con delle “siliere” in luogo asciutto continuando a rivoltarli (questa operazione era fatta dalle ragazze). Tutto questo lavoro era duro e stressante soprattutto d’estate con la temperatura elevata. Ma in tempi di ristrettezze economiche e con manodopera in esubero ed il luogo del lavoro facilmente raggiungibile era positivo per il vantaggio che se ne traeva.

LA COOPERATIVA

Sorse negli anni ’50 per volontà del parroco don Giovanni Burati, Gino Napi, Menego Teo per aiutare tutti coloro che avevano prodotti agricoli da vendere o acquistare. Anche questo servizio aveva dei soci consiglieri: Castegnaro Mario (Mario Gnari), Marzari Achille (Achille Bodo), Ernesto De Guio. La sede si trovava nella prima casa a sinistra dopo il ponte. Con l’avvento dei supermercati la cooperativa venne chiusa negli anni settanta.

LA CASETTA, LA CANOVA, LE RONDOLE

Fino agli anni ’50 a mano a mano che ci si allontanava dal centro della contrada di Vo’ si incontravano spesso case isolate o quasi che erano già sulla strada dei campi. La loro ubicazione era determinata dal desiderio di essere vicini al posto di lavoro che a quel tempo era costituito dalla terra da far fruttare. Chi aveva costruita ed abitava la casa isolata, posponendo tutte le altre utilità al vantaggio di avere la terra vicina, aveva operato una scelta che testimoniava un carattere coraggioso. La condizione di vita più autonoma, staccata dagli altri, degli abitanti delle case isolate finiva per influire sulla loro indole, che era quella di persone più decise e più intraprendenti. La casa isolata non aveva recinzione; si affacciava sulla corte attorno a cui erano disposti i vari annessi: la stalla con la tezza e il ” luamaro” (letamaio). Si apriva così senza barriere sui campi. Una particolarità pressoché costante era quella di avere una pergola di uva primaticcia (ua uliega). La periodica irrorazine di verdarame che si dava alle foglie di queste viti, aveva fatto sì che anche la parte della facciata ( di solito la cucina ) avesse preso il colore verdeazzurro. La strada era il collante che univa le famiglie che si susseguivano a destra e a sinistra.

Ecco i proprietari in gran numero ancora presenti:
De Guio Luigi (Bijo), le sorelle De Guio (le Petachine).
Alla Fangosa i Rigon con una grande fattoria, i Castegnaro (Gnari), i Bagnara, i Botegal.
Nelle corti della Casetta le sorelle Caldonazzo, i Lovato, i Fracasso, i Frigo (latari), quindi più avanti le corti dei Maran e dei Milani.

All’incrocio iniziava la via Canova con la famiglia Dal Lago, seguivano i Lovato (casolini), i Lorenzi, i Vicentin, i De Benedetti (Picioi), i Brunello ( Bei ), i Rossi, i Maule, gli Urbani, i Brendolan (Bepi era emigrato negli Stati Uniti), i D e Rossi, i Cavaggion, i Pilla, i Peruzzi, i Girardi (sabbionari), i Gecchele, i Facchin (scrochi), i De Rossi (Gasparon), i Preato (Preaton), i Beltrame (Goti). Terminava la via all’interno nei campi il Mulin del Sole (antica proprietà dei Meneghini oggi ridotto a rudere). Con la proprietà Beltrame termina la via Canova e inizia la via Rondole.
Ultime le famiglie degli Storato che acquistarono la proprietà dell’Arcomagna suddivisa poi con i Negretto (Dosio e Tarcisio) e i Cracco provenienti da Roncà nel 1940. L’Arcomagna suddivisa in “pezze” di terra “la Mandria, la Risara, i Paolazzi, la Fontanella, i tre campi, i nove campi e i sette campi confinanti con il paese di Meledo.

LE BOTTEGHE O BOTEGHE

Erano piccole imprese famigliari scomparse con l’avvento dei supermercati. I casolini erano tre: due al Vo’ e uno alla Canova. La più nota era la bottega di Eugenio Pretto, “Genio”. Gli successe il figlio Piero, un personaggio molto noto, aperto all’amicizia attraverso lo sport. (La figlia Patrizia conserva tuttora una ricca collezione della Gazzetta dello Sport). Erano i tempi di Bartali, Coppi e Loreto Petrucci. Il secondo casolin era tenuto dai Bedin un’antica famiglia proveniente dal Friuli che, con i tre figli di Angelo, Antonio Francesco ed Ettore, gestivano anche un’osteria e un forno a legna. La famiglia continua tuttora l’attività di panificio e di vendita di alimentari. La seconda osteria era quella “Da Ilario Pretto” con una attrezzata ” corte de bale” accanto alla locanda con alloggio. Oggi l’attività è cambiata in pizzeria. La terza “osteria” era quella tenuta dalle sorelle Mattiello, che con quel mezzo si procuravano i clienti, situata fuori dal centro, vicina agli artigiani.

DA CONTRADA A FRAZIONE

Le morti e le molte difficoltà avevano unito ancora una volta le famiglie a creare non più una contrada ma una frazione.
Fu così che alcuni giovani rientrati dagli orrori della guerra e della prigionia come Vittorio Calori, Eugenio Pretto, Bortolo Zadra guidati dall’opera dell’ing. Giuseppe Rossi e sostenuti dal dott. Maffei Filippo e dalla maestra Amozina Cabianca si misero all’opera per ingrandire l’oratorio dedicato a Santo Stefano dai frati di S. Lorenzo Giustiniani e poi passato in proprietà a Ziggiotti e quindi a Maffei. Questo oratorio già dal 1898 era passato da proprietà privata alla Comunità. Il 15 agosto 1925 venne inaugurata con grande solennità da tutto il Vò la nuova chiesa stabilendo che quel giorno fosse “festa sacra” o sagra. Finalmente era nata la Parrocchia guidata dal ’25 al ’40 dall’indimenticabile don Angelo Vignaga. Venne seguita dal 1941 al ’70 da don Giovanni Burati che contribuì a far crescere il Vò attraverso la realizzazione di molte opere.

Ing. Rossi, Piero Rigon, Eugenio Pretto, Mons. Tescari, Nano Rossi

Nel 1930 i fratelli Rossi guidati dall’ing. Giuseppe per ricordare il loro padre Ottaviano (per 19 anni sindaco di Brendola) decisero di finanziare un edificio destinato alla funzione di asilo per i bambini figli dei braccianti occupati nel lavoro durante la giornata. Il terreno su cui sorse la costruzione fu donato dal dott. Filippo Maffei.