GIUSEPPE VISONÀ

 

CORNICE STORICA: IL QUATTROCENTO

La storia è già stata scritta e documentata in una serie ininterrotta di avvenimenti, episodi, personaggi e città, entro cui si sviluppò la civiltà e il passaggio dell’uomo sul territorio. Ad integrazione della storia ufficiale, “dentro le mura”, vogliamo aggiungere qualche dato, avvenimento che metta in luce l’importanza e la partecipazione del comune “fuori le mura”, del paese rurale ed agricolo che da sempre ha fornito substrato alla città e alla nazione. Non è quindi nostra intenzione riscrivere la storia spostando gli equilibri sostanziali delle rispettive influenze cittadine, ma integrandone alcuni aspetti con il riferire di fenomeni minori, che hanno contribuito alla “grande storia” e alla nostra storia brendolana. Il contado, come sempre è stata considerata Brendola, ha avuto un significato ed un ruolo particolare nella esclusiva rappresentanza che la città di Vicenza ha sempre voluto avere in esclusiva rispetto a Venezia. La comunità locale era il frutto di una serie di fattori che legavano tra loro i vari membri, i piccoli gruppi di casolari sparsi od arroccati, caratterizzata da un solidarismo dovuto alla durezza delle condizioni economiche determinanti l’estrema povertà generalizzata e dalla necessità di difendersi da un regime fiscale duro ed a cascata dalla città fino all’ultima capanna rurale. Si viveva sostanzialmente una vita comunitaria per ottenere condizioni migliori di sopravvivenza. Inoltre in questo periodo si poteva uscire dalla comunità locale solo per eventi eccezionali che si possono riassumere nell’arrampicata sociale per accumulo di fortune, per vocazione religiosa (preti, frati e suore) per andare al remo nelle galere o per andare a servizio in città.

Brendola era quindi un contado “quella che stava fuori della città”, della quale veniva considerata un’appendice con funzione di granaio e di campo di battaglia.

Il tema principale di questo secolo, per noi di Brendola, è legato all’antagonismo fra Milano e Venezia, continuazione dei problemi del secolo precedente in un groviglio di vicende ed avvenimenti che si svilupparono nel territorio. I vari centri politici cercano di eliminare le forze concorrenti per realizzare una più o meno stretta, più o meno completa unificazione regionale. Il dominio veneziano su Veneto e Lombardo Veneto avvenne quasi per naturale evoluzione delle cose, più che per preordinato piano di conquista ed espansione.

Il punto di partenza della storia del quattrocento è la crisi del ducato milanese con la morte di GianGaleazzo Visconti nel 1402, che provoca una lunga serie di atti di sottomissione a Venezia. Incominciano a piovere “DEDIZIONI” dalle terre alla Repubblica Veneta.

La dedizione era un vero e proprio patto federativo tra due soggetti di diritto internazionale, agenti come autonomi e sovrani.

Ai patti di dedizione Venezia restò sempre fedele e forse fu questo uno dei motivi che impedì l’omogeneizzazione e la fusione dello stato veneziano, non permettendo l’accentramento assolutistico con conseguente espansione e durata nel tempo.

La prima dedizione è del 20 febbraio 1404 ad opera della Reggenza dei Sette Comuni dell’Altipiano di Asiago che vantò sempre tale primogenitura.

Il 25 aprile 1404 si registra la dedizione di Vicenza concordata col SORIANO, capitano generale per il Dominio Veneto in Vicenza e poi approvata dal doge MICHELE STENO, che era stato eletto doge il 1° Dicembre 1400.In data 17 maggio 1404 gli accordi si concretizzarono nei “pacta, conventiones et capitula” (Jus Municipale vicentinum pag. 306-324), approvati definitivamente in data 26 marzo 1406.

Brendola era sede di vicariato che comprendeva le Ville di Lapio, Fimon, Arcugnano, Pilla, Grancona, Meledo, Villabalzana, Longare, Valmarana, Pianezze ed Altavilla.

L’aggregazione di più ville o comuni dava origine al vicariato con funzioni per lo più di coordinamento e di controllo delle gestioni finanziarie e delle risorse, delle liti e dei problemi civili. A Brendola risiedeva il vicario, di solito, tratto dalla nobiltà locale della città di Vicenza. Il primo vicario di Brendola è dell’anno 1401, quando Vicenza era ancora soggetta al Duca di Milano (Luca Ferro: “Jure archipresbiterorum”- Strada della Concordia)..

Troviamo infatti: “henrico quondam domini Nicolai de Aurificibus de Vincentia Vicario Brendularum (Enrico Nicolò Revese)”. In ciascun anno, nel giorno di S. Martino, dalla illustrissima Città di Vicenza vien spedito un Nobil Cittadino col titolo di vicario, il quale secondo la forma delle leggi, e degli Statuti Vicentini, rende ragione sopra le questioni, e le liti civili, e delle altre ville soggette al vicariato stesso come pure presiede agli consigli e convinicie di questo comune.

Ogni comune aveva, quale ne fosse la grandezza, un proprio statuto ed a capo un funzionario elettivo, denominato degan, a cui si aggiungeva un massaro o sindaco, addetto a curare l’esazione dei tributi e dei controllori dei confini e dell’ordine, detti campari. Le cariche duravano, di solito, un anno e tutti potevano essere rieleggibili alla scadenza.

Brendola in questo periodo aveva anche un castellano, AMBROGIO SOARDO, che esercitò la sua funzione dal 1387 sino al 1404 e alla sua morte fu sepolto in S. Felice di Vicenza. (Barbarano)

I fatti di “dedizione” di Vicenza e del territorio avvenivano in un clima agitato e poco tranquillo; infatti alle porte della città erano ancora attive e presenti le forze di FRANCESCO III DA CARRARA, signore di Padova. (Maccà: Raccolta Vigna, vol. X, 200). Dopo la metà di maggio del 1404 il pericolo fu allontanato e solo il 22 novembre 1405 le armate veneziane entrarono in Padova.

Nel 1406 termina la storia di Francesco Novello e Jacopo Da Carrara che vengono condannati a morte a Venezia e rimarrà solo Marsilio Da Carrara, scampato nessuno sa come, a tramare in compagnia di Brunoro Della Scala.

La storia brendolana è strettamente legata a Vicenza e quindi a Venezia. Sempre nell’anno 1406 il 30 novembre il cardinale veneziano Angelo Correr viene eletto papa con il nome di Gregorio XII. È una notizia che giunge in tutti i comuni anche se non esisteva il telegiornale della sera. Ma le guerre continuavano ad interessare il nostro territorio anche quando non eravamo direttamente in causa. A partire dall’anno 1410 è lotta tra Venezia e l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo per la città di Zara e le terre dalmate, cedute dal re Ladislao d’Ungheria ai veneziani, ma rivendicate dall’imperatore.

Il 3 gennaio 1413 le truppe imperiali di origine ungara agli ordini di FILIPPO SCOLARI, detto Pippo Spano, fanno la loro comparsa sotto le mura di Vicenza “collo strepito di tante grida che pareva volessero rovinare il mondo intero supponendo di ridurre i Vicentini per lo spavento ad aprire le porte” (Castellini: Storia della città).

L’attacco ungaro si spinse fino a Montecchio Maggiore, Arzignano, Montebello e Brendola.

Dopo l’invasione imperiale Venezia ritenne utile riprendere e risistemare i luoghi fortificati, le fortezze ed i castelli. Troviamo in una ducale del 1417 l’ordine del doge Tommaso Mocenigo, eletto il 7 gennaio 1414, di restaurare ad opera dei vescovi vicentini la ROCCA di Brendola, in gran parte distrutta e rovinata (Luca Ferro: Strada della Concordia)

L’attenzione e la cura per i castelli e le opere di difesa nascevano dalle minacce di guerra che venivano da Filippo Maria Visconti, duca di Milano dal 27 ottobre 1412, che cercava di ripristinare la grandezza del Ducato come ai tempi di Gian Galeazzo, suo padre.

La contesa si sviluppò in due momenti diversi:

il primo periodo di lotte va dal 1425 al 1433, il secondo, per noi più importante, dal 1435 al 1441.

Prima di parlare della contesa con il ducato di Milano è il caso di ricordare la nomina a doge, il 15 aprile 1423 di Francesco Foscari. Eletto a 49 anni era il capo riconosciuto del partito che voleva spingere Venezia ad impegnarsi a fondo nelle vicende italiane, a giocare a fondo le sue carte sul continente, a far sentire tutto il suo peso nella mischia impegnata intorno ai Visconti, ancora una volta lanciati verso la creazione di un grande dominio nell’Italia settentrionale.

Un tremendo terremoto nel 1414 ed i numerosi episodi di peste, in particolare l’epidemia del 1423-1425 avevano dato luogo ad uno slancio di pietà collettiva sfociato nella costruzione di chiese Ricordiamo Monte Berico (Disconzi: Storia del celebre santuario di Maria Vergine posto… paroni, 1836.- Rumor: Storia documentata del santuario di Monte Berico, Tip. S. Giuseppe, 1911) e S. Rocco a Brendola.

Nel 1425 fu cominciata a fondare la Chiesa di S. Maria del Monte di Berica per alcuni miracoli della gloriosa Vergine Maria. Storicamente la parte iniziale e migliore delle origini del Santuario poggia su uno scritto di Giovanni Da Porto, incaricato di una inchiesta sulle “apparizioni”. Era allora podestà a Vicenza Marco Michiel e vescovo Pietro Emiliani, che intrattenevano fra loro buoni rapporti. Già nel 1430 funzionava a Monte Berico un posto di ristoro per i fedeli, che i religiosi del luogo tenevano aperto somministrando “pan e vin”. (Paglierini (III, pag. 151)).

La chiesetta di S. Rocco (Dal Monte Danilo: La devozione di S. Rocco in Brendola, 1986) fu edificata dai Revese e quanto alla data i pareri sono discordi.

Il Morsolin parla del 30 settembre 1419, deducendo tale data da una pietra murata, ora in casa Maluta. Probabilmente la costruzione fu iniziata più tardi, come ricorda don Luca Ferro. Le prime testimonianze di culto del Santo divennero frequenti dopo che le presunte spoglie di S. Rocco, acquistate dai veneziani, furono solennemente traslate da Voghera a Venezia nel 1485. La diffusione del culto a Brendola è testimoniata anche dal beneficio di una somma che la municipalità continuò per anni a mettere a disposizione per le funzioni celebrate durante la festa del Santo. La chiesetta costruita da “mistro Antonio Frealdo” passò, in seguito in proprietà ai Porto.

Ma ritorniamo al quadro generale e alle guerre con le dovute motivazioni dei Veneziani. Fra i molteplici interessi che legavano Venezia alla terraferma il più importante era la necessità di attingervi rifornimenti : viveri, legname ed anche acqua, quando maree eccezionali allagavano sotto l’impeto del vento cortili e campi salando i pozzi, di modo che i barcaioli andavano vendendo l’acqua dolce a piccole dosi. Altro motivo di capitale interesse erano le vie terrestri per i mercati occidentali, dove vendere le spezie ed acquistare in cambio tessuti e metalli.

Il primo periodo di guerra si conclude con l’acquisto da parte di Venezia di Brescia, Bergamo e l’allargamento anche nel Cremonese del proprio domino in Lombardia.

Questi acquisti non portarono la pace, anzi irritarono Filippo Maria Visconti con il quale si riprese a combattere per tutto il periodo 1435-1441. Di queste guerre prevalentemente lombarde voglio ricordare due episodi a noi vicini.

È di questi anni l’impresa, veramente titanica del trasporto di una intera flotta per via di terra da Venezia al Lago di Garda. L’arsenale veneziano costruì ed attrezzò un tipo di vascello appositamente studiato per la guerra fluviale, il primo a cui i veneziani diedero il nome di galeone. Erano navi a remi, munite di artiglieria. Sei galere e venticinque battelli minori furono portati da Verona, risalendo il corso dell’Adige, fin quasi a Rovereto, e poi trainati per 15 miglia al di là dei monti con 120 buoi per ciascuna galera, fino al lago. Ci vollero 15 giorni e un totale di 2.000 buoi.

Come conseguenza dell’alleanza tra veneziani, fiorentini, marchese d’Este ed il papa contro il duca di Milano si verificò l’occupazione di Montecchio Maggiore, Lonigo, Montebello, Arzignano e Brendola da parte di Nicolò Piccinino, comandante delle forze del duca, per tagliare la strada verso la Lombardia allo Sforza, comandate delle truppe veneziane.

Nei primi mesi del 1439, lo Sforza, con l’aiuto del Gattamelata, attaccò a Soave, dove si era notevolmente fortificato, il Piccinino, liberando tutto il vicentino ed anche Verona. (Predelli: I libri commemoriali IV, pag. 240, 232 – Biblioteca Bertoliana: Raccolta di cronache vicentine (Bernardin Sangiovanni) – Paglierini II,: (Pag. 144)).

Il CASTELLO DI BRENDOLA fu al centro di una seria vicenda che giunse all’interesse del doge.

Gli abitanti di Brendola ed i loro vicini pensando che i veneziani avrebbero difeso il castello, restaurato nel 1417, riunirono al suo interno tutto quanto il bestiame, i viveri e le biade. Minacciati e terrorizzati dalle truppe del Piccinino non osarono opporsi e consegnarono quanto avevano tentato di salvare senza combattere, rischiando di passare per traditori della Serenissima.

In data 11 luglio 1439, dopo che il Piccinino si era fortificato in Soave ed era giunto Francesco Sforza con tremila cavalli e duemila fanti che aggiunti alle truppe del Gattamelata formavano un esercito di 14 mila cavalli ed ottomila fanti, i Brendolani tornarono sotto il dominio veneziano.

Nonostante gli uomini di Brendola fossero ritornati, in seguito agli uffici di BELPIERO MANELMI, generale collaterale del Pisani e dello Sforza, fedeli sudditi ricevendone amnistia e perdono, la comunità decide di rivolgersi direttamente al doge. ( Predelli: I libri commemoriali IV, pag. 232).

Il 3 settembre 1440 con la ducale “Noi Doge Francesco Foscari confermiamo la nostra ducale, ne ordiniamo l’osservanza e ne garantiamo l’autenticità apponendo la bolla di piombo” viene ratificato il perdono a Brendola dopo la richiesta fatta dal notaio MATTEO SCOLARI, lo stesso che ci aveva documentato la presenza di 150 famiglie in Brendola nell’anno 1429.

L’episodio ci conferma che le guerre, in questo periodo, erano combattute per lo più da milizie mercenarie, che, oltre all’ingaggio, avevano de iure (per legge) il diritto di preda, di saccheggio di tutte le terre che comunque avessero conquistato od anche solo attraversato. L’uccisione dei civili era prassi corrente e veniva considerata un diritto della soldataglia: uccidevano gli uomini per il bottino e le donne dopo averle violentate.

Venezia risparmiò al suo dominio le terribili conseguenze della guerra, né le compagnie di ventura al suo servizio osarono mai molestare le popolazioni civili, quanto meno nel modo usuale altrove. Questo spiega l’attaccamento del popolo a Venezia ed alle sue istituzioni, sia la fama di stato efficiente e temibile che accompagnò sempre Venezia nei lunghi secoli della sua storia. Le vittorie nelle campagne lombarde furono spesso ottenute grazie a manovre incruente che tagliavano le linee di rifornimento del nemico o sorprendevano le sue truppe in preda al disordine.

Nel complesso Venezia fu una delle città più fortunate nell’impiego dei mercenari, ma anch’essa ebbe le sue difficoltà. Il caso più drammatico avvenne nei primi tempi delle guerre lombarde. Al loro inizio Venezia ottenne i servizi del condottiero più prestigioso, il CARMAGNOLA, che dopo aver conquistato Brescia e Bergamo per conto della Repubblica non sfruttò a fondo le sue vittorie. Il Consiglio dei Dieci venne a sapere che egli stava trattando proditoriamente con Filippo Maria Visconti. Senza rivelare i loro sospetti i Dieci invitarono il Carmagnola a Venezia nel marzo 1432 perché illustrasse i suoi piani di battaglia. Dopo essere stato ricevuto con onore e cordialità, al momento di lasciare il palazzo, fu invitato a scendere le scale che portavano alla prigione e fu pubblicamente decapitato.

Da ricordare Erasmo da Narni, detto il GATTAMELATA, uno dei capitani generali della Serenissima. Dopo la sua morte nel 1443 la vedova ed il figlio commissionarono a Donatello la statua equestre che si erge a Padova nella piazza del Santo.

Altro condottiero ai servizi di Venezia fu BARTOLOMEO COLLEONI, che alla sua morte lasciò un patrimonio di 231.983 ducati in contanti, una somma pari al patrimonio di Cosimo de’ Medici, il più grande banchiere del tempo. Venezia, dopo aver confiscato la maggior parte dei suoi beni, commissionò al Verrocchio una statua di bronzo del condottiero, nato a Bergamo, da collocare non in piazza S. Marco, come desiderava lo stesso, ma di fronte all’ospedale o scuola di S. Marco e alla chiesa di S. Giovani e Paolo.

Il condottiero italiano che ebbe maggior successo fu FRANCESCO SFORZA, il quale dopo aver servito la Dominante ne bloccò le ambizioni facendosi duca di Milano.

Nel 1442, il 3 maggio, Francesco Sforza sposa Bianca Maria Visconti e nell’agosto 1447 muore Filippo Maria Visconti lasciando il ducato in condizioni precarie. Viene dichiarata la nascita della Repubblica Lombarda, ma alla sua storia, in poco tempo, pose fine Francesco Sforza che diventò padrone del ducato aiutato controvoglia dai Veneziani.

Nella seconda metà del secolo, per noi di Brendola, la guerra sul territorio scomparve sostituita da una serie di problemi prevalentemente amministrativi. Nel 1447 venne disposto per legge il censimento delle proprietà immobiliari dei contribuenti che sarà rivisto nel 1514, nel 1661, nel 1712 e nel 1740.

Il sistema tributario era complesso ed articolato, prevedeva una serie di imposte (gravezze) a favore del governo centrale e delle entità territoriali. La più diffusa e conosciuta era la decima, istituita nel 1463 e consistente nel prelievo del 10 per cento di ogni rendita, sia immobiliare che di ogni attività economica, agricola, industriale, professionale.

Anche le gravezze locali erano molto varie e pesanti. Un esempio era rappresentato dalle obbligazioni lavorative, dette comunemente “angherie”, che i proprietari erano soliti scaricare sui propri coloni o fittavoli, in particolare in occasione di rotture di argini o di inondazioni. L’obbligo degli esattori di corrispondere comunque le imposte dovute dalla Terra, di cui avevano assunto in appalto la riscossione, li spingeva ad una fiscalità esasperata, talora bruttale e violenta, in particolare verso coloro che erano più poveri e disgraziati.

Scalpore particolare costituì la visita dell’imperatore Federico III il 22 maggio 1452 e tanta paura provocò la notizia della caduta di Costantinopoli, il 29 maggio 1453.

Dopo tante controversie e per paura dei Turchi, si giunse alla PACE DI LODI (09-04-1454).

Nella seconda metà del secolo la situazione si rivelò abbastanza tranquilla per tutto il contando vicentino.

Durante l’anno 1457 si registrò l’abdicazione del doge Francesco Foscari e la nomina a doge di Pasquale Malipiero. Nel 1460 si dispose la rilevazione cartografica del dominio di terraferma e nel 1462 venne eletto doge Cristoforo Moro.

La politica veneziana in materia di amministrazione della giustizia presentava una grande varietà organizzativa come costante del rispetto delle autonomie locali. Per cui la materia civile relativa ai diritti di eredità, contratti, commercio o matrimoni, successioni ed altro veniva gestita in base agli statuti dei Comuni, e in casi particolari in base a quelli della città capoluogo. La materia criminale era invece di competenza del Capoluogo oppure della Serenissima che poteva prevedere anche disposizioni speciali. Di solito i processi in primo grado venivano celebrati dai Vicari, molto spesso autori di scandalose partigianerie.

Gli appelli andavano al rettore veneziano, che aveva sede nella città Capoluogo, che assumeva a volte la parte del più debole ed era quindi amato dal popolo; i ricorsi in ultima istanza andavano alla Quarantia Criminal. Le pene erano la morte per i fatti di sangue, il bando per gli altri reati più gravi, la galera (incatenato al remo) per gli altri delitti non punibili con pene pecuniarie.

Generalmente i motivi di controversia nascevano in sede di determinazione (carature) dell’imposizione tributaria della Terra verso la Serenissima.

Mi sembra qui opportuno richiamare come le terre brendolane fossero appannaggio e concentrate nelle mani dei cittadini, dei Signori della Città che praticamente controllavano ogni fonte di reddito.

La divisione in Ville e in Vicariati, dietro alle giustificazioni d’ordine amministrativo, celava né più né meno l’intento di mantenere rigorosamente riservato a VICENZA il controllo della situazione fiscale ed economica nei contadi e nei centri rurali. I vicari, di nobiltà vicentina, incrementarono l’insofferenza dei centri minori, quali Montecchio, Schio, Arzignano, Valdagno e Thiene, non tanto per Brendola.

Tale fenomeno era destinato ad acuire la crisi dei rapporti tra Città e territorio, perché nel sistema tributario veneziano il proprietario pagava le gravezze relative ai fondi nel luogo ove risiedeva, (di solito in città) restando così sottratti al pagamento del tributo alla Villa i terreni di proprietà cittadina.

Per porre rimedio a questa situazione si istituì il “BALANZON”, prima forma di censimento delle proprietà. Ma anche tale strumento fu ben lungi dal risolvere il problema, che determinò continue crisi tra città e contado.

Forse è opportuno spiegare alcuni vocaboli in uso un tempo che non vengono più utilizzati con lo stesso significato e mi riferisco a beni COMUNALI, che non significavano infatti del Comune, inteso come lo si intende oggi, entità giuridico – amministrativa (che allora era detta “Villa”), bensì della comunità, intesa come gruppo di persone accomunate dall’appartenenza ai nuclei familiari antichi e dalla residenza nello stesso luogo.

L’appartenenza alla Comunità si acquistava con l’ammissione, deliberata dagli organi rappresentativi della comunità – la vicinia – formalizzata dal Degan e contro pagamento di una buona entrata, costituente il prezzo dell’acquisto della quota di “beni comunali”. Il contrasto tra comunità, di cui facevano parte solo gli uomini, e la Villa, di cui facevano parte anche i “foresti”, residenti ma non ammessi alla comunità fu motivo di aspri confronti e crisi amministrative locali. Il regime giuridico dell’appartenenza alla comunità veniva definito “incolato”. Anche a Brendola è ben documentata la presenza di beni comunali.

Nel 1464 muore Pio II e viene nominato papa PIETRO BARBO, già vescovo di Vicenza, che assume il nome di Paolo II.

Come sempre la cultura costituisce un indice delle trasformazioni e dello sviluppo. Anche la STAMPA giunse a Venezia dalle terre del Reno a partire dal 1469, quando Giovanni di Speyer iniziò la pubblicazione di autori quali Plinio, Livio, Cicerone. Venezia divenne il centro più attivo e innescò un processo di diffusione di libri. È difficile reperire documenti prima di questa data proprio perché mancava la stampa e gli unici riferimenti sono i manoscritti. Fu a Venezia che si iniziarono a stampare testi medici, musicali, carte geografiche e pubblicazioni di letteratura. Uno dei primi risultati dei primi tipografi veneziani fu la pubblicazione dei classici greci. Aldo Manuzio, con un gruppo di studiosi greci provenienti da Creta, pubblicò, per la prima volta, i maggiori autori pagani dell’antichità greca. A Padova nel 1497 fu introdotto un corso di lezioni basate sul testo greco di Aristotele.

Ricordo che questo periodo storico conobbe:

Bellini Gentile 1429 – 1507 e suo fratello Giovanni 1430 – 1516

Mantegna Andrea 1431 – 1506

Da Vinci Leonardo 1452 – 1519

Raffaello (Raffaello Sanzio) 1483 – 1520

Michelangelo (Michelangelo Buonarroti) 1475 – 1564

Giorgione (Giorgio Barbarelli) 1478 – 1511

Tiziano (Tiziano Vecellio) 1477 – 1576

A Venezia si fusero le tradizioni toscana, gotica e bizantina per creare un cultura ed una scuola come quella padovana che ancora oggi sono apprezzate e stimate.

Nel 1471 il nuovo papa è Sisto IV e sempre nello stesso anno, il 23 novembre Niccolò Tron diventa doge. Nel 1473 il nuovo doge è Niccolò Marcello, sostituito il 14 dicembre 1474 da Pietro Mocenigo. Nel 1476 diventa doge Andrea Vendramin, seguito nel 1478 da Giovanni Mocenigo, nel 1485 da Marco Barbarigo e nel 1486 da Agostino Barbarigo che rimarrà fino alla fine del secolo.

Abbiamo detto che la seconda metà del secolo non fu sconvolta da guerre sul territorio della Serenissima e la preoccupazione maggiore era di tipo amministrativo, economico, con le continue richieste di imposte e tributi ad un contado in condizioni di estrema miseria. Il rapporto che legava i lavoranti alla terra era rappresentato dall’affittanza, che durava un anno e concerneva piccolissimi appezzamenti di terreno. Sul fondo il fittavolo era libero nella conduzione e nelle colture, salvo il pagamento del fitto. Altrettanto disperate erano le condizioni abitative e la stragrande maggioranza abitava in tuguri, in capanne o casoni. La più grande ricchezza da mostrare e custodire era il maiale che di tutto si alimentava e che tutto veniva mangiato ed utilizzato.

Nel 1489 si ripete la discesa dell’imperatore Federico III, a cui seguirà nel 1494 la calata di Carlo VIII preannunciando la bufera delle guerre della Lega di Cambrai e della Lega Santa.

Bibliografia

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