VALLE  BASSA

La strada bianca lungo il Rio

La strada bianca lungo il Rio(dalla casa di Luigi Girardi fino al Grande cancello di Villa Molon)
Il Rio Bregolo scorre, da tempo immemorabile, sotto il marciapiede lungo il lato destro della strada (per chi sale verso la Contrà).
Oggidì l’intero percorso è coperto; ma fino all’ anno ’50, il tratto, compreso tra l’orto di Luigi Girardi e il grande Cancello della Villa Molon, scorreva all’aperto.
Era la preoccupazione di tanti conducenti di asini e di tutte le mamme.
Attento al fosso!”
Fu grazie al nostro amico Rio Bregolo che la Signora Rosa Biasi, in Consolaro se ne uscì col detto:
“Esare come el muso de Stona:
che no’ ‘l ga mai tirà el careto;
E co’ ‘l lo ga tirà,
El ga menà el paron tel foso”.

Lungo il Rio, a segnarne il limitare, una rigogliosa siepe viva, una siesa non una pasaia, nascondeva il Brolo curatissimo della Famiglia Molon: viti, ciliegi, peschi, peri; il Paradiso terrestre.
Tuttavia, solo dopo la posa del marciapiede, a copertura del torrentello, i passanti poterono apprezzare la ricchezza di quella siepe: piante di susino, di prugne, di biancospino…ognuna con il suo povero dono : qualche susina, prugne profumate, dolcissimi peretoli (frutti di biancospino) rossi in autunno; e poi tanoni(tamaro), bruscandoli (luppolo), visoni (vitalba)…
La siepe cedette il passo alle case; ma fu alquanto dura a morire.

L’uomo della casa della magnolia. Si chiamava Gino Paganin ed era interessante almeno quanto l’abitazione: un edificio massiccio, con la facciata rosa, abbellita da un grande capitello della Madonna.
Per noi bambini, l’insolita costruzione costituiva un punto di riferimento, più che il grande portale a bugne dei Conti Revese, bigio e imponente.
Separava la casa, dalla strada bianca e polverosa, un muretto sormontato da pilastri e balaustra; interrotto da un cancelletto in ferro battuto, davanti alla porta principale. Sulla facciata, a corona del Capitello, una enorme pianta di rose diventava, a maggio, nuvola color rosa. Sul fianco sinistro della casa, l’annosa, enorme magnolia; dentro un mistero d’ uomo.
Viveva solo, curato dalla governante. Occupava le giornate accudendo il grande brolo dietro casa e le poche bestie ricoverate nell’attigua stalletta.
A tempo perso praticava la professione di geometra.
Ma la malinconia e la ricorrente depressione che lo tormentavano, facevano di lui un uomo schivo e solitario.
Usciva talvolta per necessità o per cercare qualche conoscente.
Allora, ai suoi occhi, la strada diventava un grande cantiere. Misurava a passi, a piedi, a spanne il terreno; rifaceva il percorso anche più volte, allo scopo di controllare l’esattezza della misurazione, almanaccava sulla punta delle dita.
Rispondeva con cortesia al saluto; ma difficilmente salutava per primo, immerso nei suoi calcoli e nei suoi progetti.
D’inverno, il tabarro svolazzava di qua e di là e lui non se ne curava.
La stranezze dell’ uomo, comunque, non erano il solo motivo di simpatia e di interesse: il suo brolo, piantumato a frutteto, in primavera ospitava tante piante di ciliegio cariche di frutti.
Quelle grosse ciliegie, dolci e mature,protette dall’alta mura in basalto, Gino le regalava, con la sua gentilezza e il suo sguardo mite di geometra perennemente vivo in un mondo di numeri.

Dal Tezzon

La strada bianca terminava all’altezza del Tezzon: dove iniziava l’abitato, cominciava la pavimentazione in selese (acciottolato di basalto).
L’edificio, ex Tezzon ospitava tre abitazioni.
Sull’elegante mura confinaria di Villa Molon, dopo il grande cancello, si apriva un breve spiazzo chiuso da cancelletto: tre gradini e si saliva alla casa di Maria ed Ettore Tonon: i caregheta di Via Valle.
El caregheta Il laboratorio era estivo e stava sulla strada. Il vecchio marciapiede fungeva da essiccatoio per i carici, da espositore e da sala di conversazione. L’uomo, seduto su una piccola sedia sfondata, impagliava sedie e discorreva con i passanti. Parlava di tutto e sparlava di sua moglie, la buona e gentile Maria, che gli lesinava l’olio sull’insalata.
Il parlottio cessava non appena si faceva vivo il caffé.
Prima arrivava la voce di Maria
Ettore…el café…!” poi si faceva viva anche la donna.
Il nostro caregheta trangugiava il caffé di orzo e, con le persone presenti, si giustificava:
El xé poco pi de aqua intenta…!” Ma alla moglie rivolgeva uno sguardo di gratitudine che valeva più di un grazie.
La povertà non aveva impedito ai due di allevare i figli in modo più che decoroso; ma aveva costretto questi ultimi ad andarsene. Uno di essi ferroviere aveva sposato una bellissima donna: Immacolata e ne aveva avuta una incantevole figlia: Marinella.
Delle altre due abitazioni, con porta sulla strada, la prima ospitò la Famiglia Stenco, quindi la Famiglia Lorenzin di provenienza montenegrina (oggi vi abita una famiglia indiana); l’altra Luigi Baldato, sua moglie Linda Bertocco e tre figli.

Villa Molon

Dietro il Tezzon, si imponeva,(e lo fa a tutt’oggi) alta, Villa Molon, un tempo Zanuso, elegante e solida dotata di un’aia regolamentare (un’ara= 100 metri quadri) in cotto, una pompa a stantuffo, dalle parti della stalla: un pozzo artesiano a servizio di uomini e bestie.
Vi si accedeva per il grande cancello già ricordato e per un curato cancelletto con relativa scala, ricavato nella mura prospiciente la strada .(tutt’ora in uso, restaurato e riportato all’antica fattura.)
Villa Molon I ricordi si assiepano e si focalizzano sulla figura di Giovanni Molon, vero artefice di una rinascita dell’edificio, della conservazione dei mezzi per mantenerlo; uomo accentratore e vero motore di quella famiglia numerosa e laboriosa.
Il volto rubizzo dominava dall’alto di un corpo massiccio, diritto. Gli occhi nocciola sprizzavano energia a ogni batter di ciglia, a ogni parola.
Di modi misurati, avanzava con passo lungo e lento, lungo il marciapiede che conduceva alla Piazzola. In bocca ostentava l’immancabile sigaro che lasciava una scia di fumo e di profumo. Metteva soggezione.
Si recava, in quelle uscite dal tabaccaio o da Maria Chiarello per affari. Ritornava poco dopo con lo stesso passo e la stessa indifferenza. A mezzogirno, si raccontava, a tavola gustava brodo di piccione. Altri cibi non gli si confacevano.
Talvolta usciva in calesse. Sapeva guidare con maestria il cavallo. Noi bambini allungavamo il collo, dal momento in cui compariva dal grande cancello, fino a quando scompariva dopo la curva.
Il giovedì, era a Vicenza, vestito di tutto punto. Ne tornava tranquillo, indecifrabile. A chi gli chiedeva qualche notizia, alzava le mani, le univa e metteva in mostra i palmi. Niente, non aveva concluso niente di apprezzabile. Era il suo modo di fare gli affari.
La sua aia, un quadrato di dieci metri per dieci metri, ne vide di grano, attraverso le stagioni! E non solo quello dei proprietari; anche quello dei vicini che non avevano spazi adeguati per asciugare ora il frumento, ora il sorgo ora il veriolo (parietaria)*. Era sufficiente chiedere con creanza e dire grazie dopo il servizio. Per gli abitanti di Via Valle non era poco.
* Il veriolo, pianta comunissima di mure e murette, veniva coltivata per l’industria del colore e rendeva bene, anche se le foglie risultavano urticanti e il polline irritante per le vie respiratorie.

Il villino dei “comaron”(Salmistraro)

A Nord-Est di villa Molon, ai confini della proprietà, lungo una rispettabile mura di contenimento parte in sasso e parte in mattoni, si apriva un cancelletto sormontato da folta chioma di due cipressi, per un villino con giardino.
Era il regno delle fiabe, con i suoi vialetti curati e selciati, il gazebo, la balaustra e quel silenzio quasi irreale, così complice ad alimentare l’incanto. Vi abitava Giovanni Comaron, Salmistraro con i cinque figli, presenti a turno.
Quella era la casa di Piero Salmistraro, il professore che volle studiare in barba alla povertà della famiglia.
* Quante estati passate all’ombra di quel gazebo, seduti sulle panche di pietra attorno al tavolo rotondo, hanno passato I bambini di Via Valle! Era un’attrazione, un luogo senza tempo dove si poteva sognare e giocare.
(Oggi il villino e la terra intorno sono di proprietà di Giovanni Aletti)
Sulla Strada, sotto il Villino, abitavano Meno Girardi Meno Postin e Antonio Bedin, Toni Ati: i portalettere del paese, sempre in bicicletta, sempre puntuali, inverno ed estate.
Alcuni anni prima, l’edificio superiore e quello inferiore appartenevano entrambi alla Famiglia Girardi; lo testimoniava anche la presenza di un gabinetto in mattoni e a due piani ( il piano alto per l’edificio più in alto): un lusso per la Contrà.
Toni Ati Il postino di Valle si chiamava Toni Ati (Antonio Bedin). Magro come una canna di sorgo,un po’ burbero, un po’ gioviale, era sulla strada tutti i giorni, sei giorni la settimana. Distribuiva la posta a circa metà del paese, ma la Via lo considerava quasi una proprietà.
Abitava la casa dei postini, con la moglie Ida e i quattro figli.
Il passare del tempo aveva reso lui e la sua bici ante-guerra un’istituzione: era più popolare del Sindaco, più conosciuto dell’Arciprete, più importante della Maestra a Scuola
Toni conosceva tutti. Compariva in Contrà verso le nove, puntuale al punto che le donne avrebbero potuto regolare la sveglia.
Xé passà el postin?”
“No, gnancora!”
“Alora no xé gnancora le nove!”
Quante lettere e cartoline trovarono posto in quella borsa panciuta di cuoio scuro a più scomparti ,appesa al manubrio di quella bici!
Lì dentro non viaggiavano solo lettere e cartoline, ma desideri e delusioni, speranze e incertezze quando una lettera attesa tardava ad arrivare.
Per Toni, l’anno solare comprendeva una sola stagione; non prevedeva giorni belli o giorni brutti; ma giorni tutti uguali, con la posta da consegnare, il percorso da completare.
Poi cominciò la pubblicità via Posta a rovinare l’armonia. La borsa divenne sempre più pesante; la bici vecchia denunciava tutti i suoi anni; Toni decise di andare in pensione. Non deve essere stato, comunque, un bel posto la pensione.
Toni ci rimase un poco, mugugnando; e un giorno, stanco di non far niente, inforcata la sua bici, prese la più lunga delle strade. In fondo lo attendeva il suo amico Meno Girardi, che lo aveva preceduto di qualche anno.
Meno Postin Meno era il postin del mistero. Bici, borsone come Toni, ma una serietà e un certo distacco che incuteva rispetto in noi bambini, forse un peletto di timore. Lavorava al Cao de là, ma in Contrà era nato e non c’era piccolo o grande che non lo conoscesse.
Eppure era buono come il pane, paziente, con un timido sorriso di uomo forgiato dalla vita.
I figli lo avevano lasciato per percorrere la propria strada e lui sapeva vivere anche solo.Ma la sua casa difficilmente era vuota. Vi tornavano, turnandosi, figli, nipoti cugini… Meno sapeva dire sempre si.

 

Oggi nella casa dei postini abita la Famiglia Pretto; e lì sul fianco Nord della casa ecco le scalette, il sentiero a gradoni che conduce fino al Campetto e a San Marcello.

Casa Dal Monte

Dirimpettaio alla casa dei postini>, si alzava imponente e un poco truce il grande portone della fattoria Dal Monte.
Il cancello, in ferro schermato da lamiera, racchiudeva un vasto cortile, con stalla, casa del bovaro, pozzo sormontato da ghiera antichissima (pare del ‘500) casa padronale, il cui fianco limitava (e limita) la strada. Era quello il regno di Bepi Dal Monte e Candida Biasi, attorniati da numerosi figli.
Bepi Dal Monte Sedeva, durante le sere estive, davanti alla porta, su una sedia portata fuori da una nuora o da un nipote; e da lì scrutava con occhio attento l’andirivieni serotino: mucche all’albio (abbeveratoio) presso il pozzo, polli intenti a beccare l’ultimo becchime sparso da Candida, la moglie; la mungitura serale; le donne venute ad acquistare il latte; il pasto portato ai maiali, l’accasamento dei piccoli animali…
Impassibile, con la piccola pipa in bocca, devotamente accesa, fissava tutto nella mente; e mentre il sole calava e lasciava posto alla brezza della Valle, più benevola , si godeva la fatica della giornata. Quel che non andava avrebbe costituito argomento durante la cena: a quella pipa non sfuggiva neanche un moscerino.
La Russia, al vecchio Bepi, aveva rubato un figlio,durante l’ultima guerra: gli aveva preso Piero, il suo ragazzo canterino, che nelle sere estive incantava la Contrà. Il servizio militare gliene aveva rubato un altro qualche tempo prima.
Bepi non ne parlava mai.

Le disgrazie, – era solito dire- non risparmiano nessuno. Il gran lavoro dei campi e la regia delle consuetudine quotidiane registravano una pausa la domenica.
Alle 5 del dì di festa ecco il nostro uomo alla Messa prima: cappello in testa, camicia bianca inamidata, vestito di panno e sierpa (cravatta larga). Dopo Messa c’erano l’amico Checco Valdagno e il ritrovo all’osteria.
Il pranzo del mezzodì lo costringeva a casa; ma, verso le due, Bepi usciva per le Funzioni. A salire l’erta collina della Chiesa, pipa in bocca, impiegava quasi un’ora: tanto ci voleva per incontrare l’amico Checco, rendere gli omaggi alla moglie di lui, assaggiare un bicchiere e avviarsi con la mente alla partita festiva di foraccio.

D’inverno la faccenda diventava spettacolo. Il nero Tabarro di grosso panno, si avvolgeva accuratamente a proteggere l’uomo; ma il drappeggio era frutto di un’arte: la scampanatura verso il basso doveva risultare impeccabile. Si dondolava in quell’abbraccio di panno e a movimenti pesati e misurati ;affrontava il cammino.

Per i bambini della Via era l’uomo nero. Oggi la casa padronale è abitata dalla signora Pia Castegnero, dalle famiglie Bertin e Celadon e, dove stavan le stalle, dalla Famiglia Balzarin.
Il moro (gelso) Venendo da Revese, alla prima curva a gomito, sul confine tra le proprietà Dal Monte Giuseppe e Gino Paganin, oltre l’antica mura dentuta, verso gli anni ’60 levava i suoi robusti polloni un enorme moraro, un moro nigra, con una tonda boccaccia a mezza altezza e un pancione smisurato. Era un gigante buono.
Resistette il grosso moro finchè la terra, di cui era fedele guardiano, non fu lottizzata. Poi, da un giorno all’altro, smise di alzare i robusti polloni verso il cielo. Muoiono anche i giganti.

 

Casa Murzio

Di là della strada, rientrante rispetto alla Via, ecco la casa dei Murzio, adibita a deposito di armi e munizioni durante le guerre del Risorgimento. Lì, fino agli anni 50, lavorava Bruno Murzio falegname.
Gioana Careta La casa dei Murzio era casa di artigiani. Vi lavoravano un tempo Giovanna Muraro come tessitrice, con telaio; il marito Arcangelo Murzio marangon (falegname) e, successivamente il figlio Bruno.
Giovanna Muraro, detta anche Gioana Careta era la scrivana della Contrà.
Piccolina, con due occhi azzurri penetranti, vestiva sempre di nero e secondo il costume delle popolane venete.
La sapeva lunga la vecchia Gioana: dietro quelli occhi azzurri si nascondeva una mente sveglia , in grado di ricordare fatti e nomi di tanti anni addietro.
La casa ospitava spesso donne con lettere da leggere o da scrivere. Chiedevano permesso con ritrosia; ma si vedeva lontano un discorso che si sentivano a loro agio.
La faccenda dello scrivere osservava un rituale quasi serio: la richiedente entrava, esponeva le sue necessità, aspettava la risposta. Gioana, che si era tenuta in disparte, si faceva avanti.
“Ecco, beh, avrei da fare. Ma se è una cosa urgente…” e accenneva a una sedia.

La recita la gratificava anticipatamente.
Dopo di che la cuccuma, riempita d’acqua e coperta con tre cucchiaini d’orzo, si spostava sul fuoco.
Gioana allora, ma solo allora, inforcava gli occhiali, prendeva la lettera da esaminare e leggeva con lentezza.
Bisogna rispondere” rifletteva ad alta vce.
Quindi, ghermiti penna e calamaio, si accingeva all’ opera, con la sua scrittura chiara e leggermente inclinata verso destra.
I suoi studi, arrivati alla terza elementare, trovavano, soccorso in una cultura umana ricca di sfumature, acquisite lungo l’ esistenza piuttosto dura.
A lettera terminata, un pizzico di cenere asciugava lo scritto e una tazza di caffé suggellava l’operazione.