LA VALLE DELLE SPESSE

Il comprensorio delle Spesse ha origine nella zona situata fra le case Borghero – ora Serblin – e la carrareccia che partendo dal Lavo (via Marzari) congiunge per i monti Brendola ad Altavilla e si prolunga stretto e sinuoso salvo rare eccezioni per quasi 4,5 chilometri, con un dislivello di 150 metri, sino ad aprirsi definitivamente nella contrà Valle.
Gli fanno da confine ad est 1′ ampio e verdeggiante monte Comunale, a sud-est 1′ ispido sperone roccioso di calcare oligocenico del monte Castello (mt. 245 s.l.m.), la cui asprezza si stacca nettamente dai declivi più dolci dettati dalle morbide morfologie delle marne priaboniane con le quali il rilievo si inserisce nella sottostante pianura, ad ovest il versante meridionale del monte Spiado (mt. 296 s.l.m.) anch’esso a natura prevalentemente calcarea, il cui carsismo si evidenzia in numerose doline e sul quale si è impostata una vegetazione rada e prevalentemente arbustiva. Purtroppo 1′ ambiente naturale di questo monte è stato danneggiato in maniera irreversibile da un impianto sportivo a golf; la stupidità dell’uomo raggiunge qui limiti inusitati, ha fatto crescere si’ verde erba, bellissima, ma in un ambiente dove la perdicolarità dell’acqua si esprime ai livelli più alti; la mia domanda è quanto costa mantenere quel verde sempre più verde, quale prezzo sostiene 1′ ecosistema e la comunità perché’ esso sia concesso
all’uso esclusivo di una classe che si considera elitaria, dove sono i vantaggi tanto decantati che sarebbero dovuti rientrare ?
La depressione valliva si è costituita in seguito all’erosione fatta dall’acqua che ha trascinato via la parte più fragile del terreno.
Il rio che la percorre ne prende anche il nome – Rio Spesse – e lasciata la valle attraversa le contrade di Valle e Revese per confluire dopo quasi 4 chilometri nel Fiumicello Brendola, all’altezza del ponte che porta al Santuario della Beata Vergine dei Prati.
Sull’asse dell’incisione affiorano estesamente, in modo particolare alla base del monte Castello, rocce ricche di argilla dal colore grigio-verdastro, indicate come termine del periodo priaboniano e qui denominate marne a briozoi o marne di Brendola: sono rocce non stratificate trattandosi di composti di argilla carbonatica, il sito inoltre è indicato dagli studiosi come “località tipo”.
Sulla parte superiore delle marne priaboniane s’innesta la roccia sedimentaria profondamente alterata in superficie, dalla stratificazione indistinta, appartenente alla formazione delle Calcareniti di Castelgomberto. Il processo di erosione e soluzione operato dalle acque meteoriche sulle rocce calcaree, all’incontro con le sottostanti impermeabili argille, va a creare le sorgive d’altura.

Può essere a pochi passi, anche per i Brendolani nuovi e vecchi una passeggiata da farsi nelle vicinanze; assume meno importanza di altre, forse perchè sempre a portata di mano, oppure mancante di stimoli.

Cominciamo allora insieme uno di questi itinerari, partendo dal popoloso borgo di Valle, termine adoperato nei documenti sin dal 1203, unito al nome di “pozzo d’ Angonano”.
All’inizio, dietro un’alta mura di cinta sorge 1′ antica dimora che fu degli Anguissola, ricchi proprietari di terreni e case. La costruzione risale alla prima metà del ‘500 ed ha assunto 1′ aspetto attuale nel 18° secolo, quando si ornò la finestra nobile con una tipica balaustra di gusto settecentesco; del secolo scorso sono le stalle ed il portico a tre arcate a tutto sesto, con la cornice in cotto a denti di sega del sottotetto.
Degni di nota il grandioso portale a grosse bugne, che presenta strettissime affinità con quello del 1569 del castello dei Barbarano a Belvedere di Toara, il portoncino d’entrata a lesene bugnate reca sul piccolo timpano 1’ arme nobiliare degli
Anguissola, entrambi attribuiti alla mano di Ottavio Bruto Revese, sul retro della villa una monolitica vera da pozzo, tutti del ‘500.
Dinanzi si trovava la chiesetta dedicata a S. Antonio da Padova, la cui unica memoria rimasta è la croce in ferro battuto su basamento in pietra berica lavorata, che ora si può cedere a fianco dell’ingresso della canonica della Madonna dei Prati.
Fu fabbricata dagli antichi Ferramosca nel 1655: “il 26 luglio 1655 il conte Antonio Ferramosca dottor, figliolo del fu conte Guido chiese al cardinale Bragadino, vescovo di Vicenza, licenza di poter fabbricare una chiesa in honor del signor Iddio e di sant’ Antonio da Padova contigua alle sue case nel loco di Brendola in Contrà Valle obligando perciò per 1′ adempimento di ciò che in particolare 1′ hostaria di Brendola acquistata per esso (= oratorio) per ducati mille et di più assegna pure al medisimo la casa ad esso attaccata et unita et 1′ horto…. acciò possa servire per 1′ habitatione et comodo di quel reverendo sacerdote
Nel 1677 1′ oratorio crollò e venne fatta domanda in Curia di poterlo ricostruire p6co distante, in forma più decorosa, con il materiale del vecchio oratorio; verso la fine del 1600 fu ricostruita anche la sacrestia. La ricostruzione venne commissionata dal conte Scipione Ferramosca, che ivi volle essere sepolto (Scipione fu Antonio Ferramosca fece testamento in Vicenza il 17 novembre 1726: “questo è il testamento di me Scipion Ferramosca quodam Antonio Lascio che mi simo dette 500 messe e, seguita la mia morte voglio essere sepolto in una cassa forte e che sii deposto il mio corpo qui nella chiesa della Salesà sino a tanto che privatamente lo conduchino a Brendola per essere sepolto nella sua chiesa di S. Antonio, dove saranno fatte le esequie e dette le messe al n. 500” ).
La pietra sepolcrale del giureconsulto Scipione Ferramosca era attribuita al tagliapietra Giuseppe Bonvicini, operante a Vicenza nei primi decenni del ‘700.
La chiesetta aveva un cappellano con un legato di 80 ducati; alla solennità del Santo tutti i sacerdoti della parrocchia di S. Michele celebravano solennemente la messa.
La strada ora rasenta la parte posteriore di una lunga teoria di case che hanno il prospetto anteriore rivolto a mezzogiorno; ogni tanto si apre uno slargo che immette nel cortile interno. Seppur quasi tutte restaurate le vecchie abitazioni, costruite con materiali del luogo – le pietre calcarea e basaltica – conservano quel sapore d’ altri tempi che rende molto suggestivo questo borgo antico.
A metà della via un portone ad arco ribassato conduce all’interno della corte detta “dei Potente” , dal soprannome di una famiglia che qui risiedeva, dove domina al centro della fila di case la parte nobile con le porte principali del piano terra e del primo piano ad arco pieno: la seconda dà su un grazioso poggiolo in ferro lavorato.
Qui si trovava 1′ ospedale di S. Vincenzo in Valle della cui fondazione si ha il primo ricordo in un atto del 18 aprile 1408. In esso “Vincentius quodam Francisci de Brendulis” lasciava parecchi beni all’ ospedale di S. Vincenzo; il notaio Vincenzo trasmise il diritto di patronato a Francesco da Brendola, come appare da una collazione di detto ospedale eseguita nel 1426.
L’ ospizio aveva un beneficio semplice col titolo di priorato ed era molto ricco e investito di parecchi livelli; oltre al ricovero degli infermi ed all’aiuto alle partorienti alloggiava pellegrini.
Il primo priore fu tale Marcantonio di Francesco da Brendola (Libri Collationum Beneficiorum). Tracce della sua esistenza si ritrovano nelle visite pastorali del 1424 e 1626.
Pochi metri più avanti, nella parete in strada di casa Bari è posto un capitello in pietra (mt. 2,00 X 1,00 ca.), protetto da una elaboratissima tettoia e incorniciato da due lesene sorrette da una originale mensola in simmetria col timpano spezzato in due volute. La nicchia contiene 1′ immagine protetta da vetro della Madonna del Carmine ed è stata costruita da tale Giovanni D’Agostini nel tardo 1800.
Lasciata a manca la colorita corte dei Valdagno e passate le ultime abitazioni del borgo, una capezzagna a sinistra ci introduce nella valle del Rio Spesse.
Subito compare a destra la breccia basaltica degradata, che discende dal castelletto Dal Molin ora Dal Monte, occupata per lo più dalla robinia e dal sambuco; ogni tanto scoline fatte a mano, in sasso nero squadrato, , portano a valle rivoli di acqua piovana.
La parte sinistra della capezzagna, delimitata da un allineamento arbustivo, mostra dei coltivi a vite e degli orti.
Percorso un centinaio di metri s’ incontrano i diritti tronchi dalla grigia corteccia dei bagolari o spaccasasso (dialett. farsegolari) che producono ogni due anni gustose bacche; un tempo con i loro rami si facevano le fruste per i cavalli.
L’ attuale ponte che poco dopo attraversa il Rio Spesse è di recente costruzione, giacchè nel 1985 una disastrosa piena aveva spazzato via il precedente, posto ad un livello più basso.
Dai vari detriti del letto scaturisce dell’ acqua, che qui si trova sempre e che quasi subito va a perdersi nei successivi depositi ghiaiosi per ricomparire all’altezza delle prime case della contrà Valle. Delle tubazioni in gomma raccolgono 1′ acqua che, per caduta, viene convogliata ad irrigare i sottostanti orti.
A destra uno slargo fa vedere dei grossi gelsi, in dialetto “morari” (= morus alba o nigra a seconda del colore dei suoi frutti o more): sono quasi una rarità, per il passato venivano messi a dimora in lunghe file ai margini delle strade e dei fossi ed erano talmente preziosi che una norma legislativa dell’ epoca vietava 1′ eliminazione anche di una sola pianta che non fosse morta naturalmente. Servivano soprattutto, questo era il loro reale valore, per la coltura dei bachi da seta o filugelli (dialett. “cavalieri”), che costituiva con il latte prodotto nella stalla una delle poche forme di sostentamento continuo della famiglia contadina.
“Già diffuso in Oriente prima dell’avvento del Cristianesimo e introdotto in Europa attorno al VI secolo dopo Cristo, il seme, composto da piccole uova e prenotato nei primissimi mesi
dell’ anno, veniva posto ad incubare entro un pannicello caldo all’approssimarsi del 25 aprile, festa di S. Marco.
Dopo la schiusa, si provvedeva a portare in una stanza riscaldata da una stufa a legna i piccoli bruchi dove sopra un graticcio o rastrelliera (dialett. “rela” o “arela”) venivano alimentati da principio per tre volte al giorno con le prime foglie di “moraro” tagliate minutamente.
A tale scopo la coltivazione del gelso abbisognava di particolare cura: la pianta veniva potata in modo tale che i rami fossero sempre giovani e quindi che producessero germogli vigorosi.
Man mano che trascorrevano i giorni i bruchi, pregni di una incredibile voracità, aumentavano in maniera considerevole sino a raggiungere nell’arco di 30 giorni la lunghezza di 7 – 8 cm. ed il peso di circa 3 gr., attraverso cinque età separate da quattro mutamenti di pelle (dialett. “muda”).
Dopo la quarta muta tutta la famiglia si teneva a disposizione dei “bianchi cavalieri” che divenivano vieppiù ingordi della foglia che non risultava mai sufficiente alla bisogna; era un “dannarsi 1′ anima a pelare” i rami dei morari ed infilare la foglia nel sacco appeso alla cintola.
Trascorsi all’ incirca 40 giorni i bachi smettevano di mangiare, cosi’, messi in secchi e pentole venivano trasportati in una stanza oscurata, solitamente il granaio, a “filare” sopra delle fascine di legna appositamente slegate per dar loro modo di impostare il bozzolo; lo strato di legna veniva coperto, con 1′ aggiunta di qualche manciata di foglie sminuzzate per i bachi non ancora maturi, da ampi fogli di ruvida carta gialla riutilizzata di anno in anno dal contadino.
Dopo dieci giorni, quando al loro interno i bruchi si erano trasformati in pupe, avveniva la rimozione dei gialli bozzoli dalle fascine (sbozzolatura) e prima di essere portate alla filanda le “galete” venivano liberate dalla “spelaia”, cioè quell’ involucro rado di seta che era servito al “cavaliere” da impalcatura del bozzolo. Ogni galeta dava circa 1500 metri di seta”.
Il sentiero in acciottolato di sasso nero ora sale ripido il versante del Monte Spiado fra roverelle ed ornielli; al tornante si può osservare 1′ affioramento di basalto ad esfogliazione cipollare: questa caratteristica avviene quando il basalto esposto a particolari agenti climatici disgregativi subisce un processo di alterazione che porta alla argillificazione della massa sotto una forma arrotondata che si sfoglia a mò di cipolla. Al limitare del neck basaltico, laddove inizia il bianco calcare, dal sentiero diparte a destra una carrareccia che passando fra terrazzi coltivati a vitigno porta alla “fontana dell’ albera” per la presenza in loco di grandi piante di pioppo (dialett. “albare”). L’ acqua di questa sorgente d’ altura, che è potabile, viene convogliata per mezzo di una canaletta in una vasca di raccolta scavata nel terreno ed impermeabilizzata.

Ripreso il sentiero principale in un attimo si raggiunge il pianoro dove si incontra casa Binato, ora Marin, rivolta a mattino; la morfologia dell’ abitazione dà immediatamente la dimostrazione fisica caratteristica dell’insediamento collinare berico.
La costruzione è stata usata fino a non molti anni fa da una famiglia di agricoltori che ha cercato di sfruttare al meglio le dolci pendenze del luogo, sottratte ad una vegetazione assai invadente data la forte presenza di umidità.
La casa è attualmente nella fase terminale del restauro: sono state apportate parecchie migliorie anche se della struttura originale si può vedere integralmente solo la parte. primitiva non intonacata; il contesto è stato abbellito dall’ innesto di essenze arboree, da statue e fontane, da siepi di rosmarino, dalla figura ingombrante di un cannone da guerra fuori uso, puntato verso la soprastante mole della Rocca dei Vescovi.
Passato il cancello d’entrata, sull’asse dell’incisione si può osservare il carsismo tipico della zona: a monte il letto del Rio Spesse risulta completamente asciutto, a valle dove ha inizio la profonda forra, sopra la marna argillosa scivola copiosa 1′ acqua, in particolare dopo la pioggia, per perdersi quasi subito in mille meandri.
Ritornati a casa Binato, diparte dall’estrema destra della radura coltivata a frutteto ed olivo la stradina che, sempre più marcatamente, penetra nel bosco fitto a carpino e roverella, colorato dal verde intenso dei pungitopo.
Dopo il primo tratto la carrareccia si slarga e diventa di facile percorribilità; ricompaiono sul lato a monte gli affioramenti “eruttivi brunastri del neck di Brendola nella sua forma ad esfoliazione cipollare. Questo fenomeno diventa più marcato dopo il superamento di una pozza d’acqua alimentata da una sorgiva da contatto con grottina di ridotte dimensioni sullo sfondo: è’ la “fontana della vipera”.
Sul poggio a prativo vicino ad una casa diroccata, coperta dalla rosa di macchia, di proprietà della famiglia Dal Monico (dialett. Sadoco o Sadocco) la schiarita lascia aperta la
visuale sulla pianura sottostante, sulla miriade di costruzioni che compongono i vari nuclei abitativi delle valli del Chiampo e dell’ Agno fino a perdersi sulle vette delle Prealpi: il Carega,
il Cornetto, il Baffelan e i Tre Apostoli.
La capezzagna dopo breve salita porta alla casa rossa abbandonata che fu residenza dello scomparso Raffaello Effidiani per tutti solo Raffaello, dominata dalla presenza di un imponente ippocastano.
Dalla corte scende a sinistra uno stretto sentiero, dapprima a gradini , che costeggia la recinzione oramai nascosta dai rovi di un insediamento recente e, passata la tratta coperta dal fitto bosco a roverella, lo si lascia per girare a destra verso la plaga basaltica caratterizzata dall’ abbondante insediamento del Fico d’ India Nano, specie termofila che si è naturalizzata spontaneamente su questa soleggiata località denominata Lovara.
Il viottolo ora prosegue sconnesso e lasciata a monte un’alta masiera di sasso nero ci riporta, passate le corti Binato ed Illoveri, in via Valle e con essa ai problemi del vivere quotidiano.