Contrà MonteRosso

Dalla casa di Arcilio Graser, dietro la quale abitano Marchetto Guido e Rezzante Adelia, in salita ripida, dopo 100 metri si giunge alla: Contrà Monte Rosso.
La prima stradina a sinistra conduce in corte Acco. Le case risalgono all’ottocento.
“Storia di famiglia” Acco Angelo
La casa dove ora abita Acco Pietro era di Pertile Domenica, della “Famiglia Squarzio”.
Pertile Domenica (imparentata con Emma Menon per via del padre, un Pertile, e con la Famiglia Squarzio per parte di mamma), aveva sposato Vincenzo Pillon fratello di Oreste Pillon, padre di Pierangelo. Non ebbero figli.
Erano Pertile: la mamma di Emma Menon, la mamma di Elisabetta Menon Dalle Nogare, il padre di Domenica Pertile, venivano dall’Altipiano come tutti i Pertile. In Cimbro il cognome significa: Piccolo taglialegna.
Tornando indietro verso il Monterosso, si sale per la strada principale e si incontrano le case dei Todesco e quelle dei Vaccarotti.
“Storia di famiglia” Vaccarotti Pietro
In origine, probabilmente, si trattava di un’unica abitazione sulla sinistra, lungo la carrareccia che dalle Laste menava a casa Frealdo (Scrocco).
L’avo, forse un Todesco, accanto alla propria casa aveva costruita quella dei figli: una casa per figlio, secondo la tipologia contadina del luogo: sotto, sopra, porta a solatio, una finestra al pian terreno, due al primo piano; soffitta a discrezione della tasca.
Sulla destra della strada il riparo per le bestie; davanti, un pianoro sulla vallata dello Scaranton e la corte.
Al limitare della corte, sugli orti e i campi che scendono, era sorta un’altra casa; davanti un panorama pulviscolo dorato di una giornata di sole: l’ approdo della famiglia Vaccarotti.
Il seguito della storia è quello di tutte le nostre corti rurali: i figli, sposando, si imparentano con altri ceppi e la corte cambia ospiti e padroni.
Nella prima casa, l’abitazione di Angelo Todesco, le proprietarie, Elisa Caldonazzo e la figlia Rosa-Angela, vi restarono per un bel pezzo.
“Storia di famiglia” Todesco Giuseppe
Quando Angela Todesco si trasferì in Canonica, dopo la morte della madre, chiuse l’abitazione e da allora i muri della prima casa non ebbero più il tepore di un camino.

La seconda casa era di Todesco Giovanni e Sogaro Elvira e dei loro figli. Poi Elvira rimase vedova. Alla sua casa gettarono l’ancora il cognato Don Michelangelo Todesco e il fratello Costante Sogaro.
Don Michelangelo celebrava nella chiesetta a San Vito; Michelangelo, il nipote gli faceva da chierichetto. Il fratello di Elvira ritrovò il tepore della famiglia e l’allegria dei nipoti.
Nella terza casa viveva la vecchia Gravellona. Carica d’anni e di acciacchi, la donna godeva della disponibilità dei vicini: l’intera corte fungeva da famiglia.
Quando veleggiò verso migliori lidi, la casa venne occupata dalla famiglia di Domenico Gianesin.
Marito e moglie erano anziani e non si fermarono per molto. Successivamente vi arrivò Vittorio Acco con la moglie Teresa e 6 figli.
La casa mutò, ancora una volta, occupanti. Questa volta furono i padroni a entrare: Michelangelo Todesco, papà di Silvio.
Qui creò l’oratorio per lo zio Don Michelangelo Todesco.
La quarta casa era abitata da Todesco Giuseppe, chiamato Pesata Giuseppe che sposa Marietta. I Todesco hanno sette figlie e un figlio. La casa apparteneva ad Angelo Todesco (il padrone della prima casa).
Bellissime ragazze, non ci misero molto a prendere il volo. Il figlio Arcangelo si sposò, pure lui e la casa restò nuovamente vuota.
Intanto Michelangelo Todesco si era sposato con Caterina Maran (Catinella da San Gottardo) e la casa di Angelo Todesco andò in affitto ai novelli sposi. Fu qui che nacquero: Giovanni, Giuseppe, Paola, Silvio.
La quinta casa venne presa in affitto da due fratelli di Caterina Maran.
La sesta casa era quella di Antonio Rossetto e Longo Domenica, genitori di Narciso Rossetto, marito di Maria Vaccarotti. Si trasferirono a Latina nel 1952.
“Storia di famiglia” Rossetto Angelo e Antonio
La settima casa apparteneva ad Angelo Rossetto e alla moglie Baldan Fortunata.
Dopo la nascita di quattro figli, arrivarono due gemelli nel 1919. Ma Fortunata morì di parto. Angelo si risposò con Amelia Frigo (Paela) e ne ebbe altri tre figli. Dal figlio Erminio e da Luigina Bisognin nascerà nel 1949 Don Elvio Rossetto.
In questa casa abitarono anche Vittorio Acco e la moglie Caldonazzo Teresa con i figli.
Quando i Rossetto se ne andarono Maria Maran, detta Maria Belgia e il marito Alfonso Maran, tornato dal Belgio con la silicosi, acquistarono l’edificio. Costituisce l’ultimo immobile prima della casa dei Frealdo, detti Scroco.
Oggi. La prima casa, quella di Angelo Todesco è chiusa.
Nella seconda abita Elisa, la figlia di Paola Todesco.
Nella terza, abita Paola Todesco con il marito Fanton Francesco.
La quarta appartiene a un signore che vi abita saltuariamente.
La quinta è vuota e in evidente degrado.
Nella sesta abita Alfredo Sambugaro, il figlio di Adelaide Vaccarotti.
Nella settima abita Silvio Todesco con la moglie Fracasso Rita.
L’edificio adibito a stalla, opportunamente riattato è l’abitazione di Francesco Muraro e della moglie. Nella casa dei Vaccarotti abita Adelaide; in quella attigua abita suo figlio Giovanni Sambugaro.

 

Passata corte Todesco-Vaccarotti, la strada arriva a un bel pianoro dove sorge la fattoria di Frealdo Giuseppe e sorelle, detti Scroco (una delle sorelle aveva sposato Frigo e si chiamava Drosoli, un’altra Rita aveva sposato Mario Castegnero, Ida aveva sposato Olivieri).
“Storia di famiglia” Frealdo Antonio
Il terreno coltivato e tenuto con cura, conserva ancora la pratica agraria della piantata intermedia. Sembra, la collina, un arazzo antico, con i filari pettinati, gli annessi rurali incollati al posto giusto, la casa al centro come il viso di una donna matura: bella e ricca di ricordi.
Persino le galline, grasse e lente, occupano il debito spazio. Quanti ragazzi Frealdo sono passati di qui! E quelle belle sorelle che, quando si incontravano in paese, tutte insieme, riempivano una strada: alte e armoniose nei movimenti. Mi diceva mia madre: “Guarda! Passano le sorelle Scroco (le Scroche)”.
I Frealdo del Monterosso godono di parentela molto stretta con i vicini di casa.

Pietro Vaccarotti e la moglie partono per il Brasile, con destinazione le piantagioni di caffé. Giuseppe è già nato. Orsola nasce laggiù. La terra è avara, dura.
Gli insetti sono assetati e aggressivi. Tornano dopo 11 anni, nel 1891 e vanno ad abitare nella casa che ora è il pollaio dei Frealdo del Monte Rosso; terra allora dei Rossi e che fu acquistata poi dai Vaccarotti. Orsola ha 11 anni.
Il colle, coltivato ancora a piantata intermedia, è percorso da una carrareccia per la quale si scende allo Scaranton della Bocara. Risalendo il corso d’acqua, si giunge in Via Grotte (ora Via Postumia).
La strada si divide in un bivio. Svoltando a sinistra, per una carrareccia dissestata e ripida si giunge alla corte di Rigolon Giuseppe, Pozzo Omero e un altro Rigolon. Questi Rigolon erano detti Sandron e…si scende in Via Postumia.

L’amena Contrà
Andare al Monterosso era una festa, d’estate.
Superata la strada in salita, che congiungeva e congiunge il Capitello alle case del Monterosso, lo sguardo si posava su una pianura ferace, lunga e variegata distesa di verde, intersecata da fossi e fossetti, da rivi e filari di mori e salicelli. Lì la Degora assumeva l’aria di un segno blu su un quaderno di storie e, da bambina, mi chiedevo chi e perché avesse tagliato la splendida coperta dei campi in due lembi.
La Degora lo racconta in Primavera, nelle notti di luna piena.

I fantasmi e i babau
Quand’era bambino Pierangelo Pillon dalle parti delle Grotte era di casa.
A Monterosso abitava lo zio Vincenzo, fratello di papà Oreste con zia Domenica.
Visitare i parenti era consuetudine.
La tipologia dell’abitazione non tradiva lo stile del luogo: casa rurale, cucina, due camere al primo piano, soffitta; finestre piccole, soffitto basso e scuro, pareti bigie per il fumo del camino.
La cucina, grande, sosteneva diverse funzioni: sala da pranzo, salotto, angolo di cottura. Alle pareti stavano le fotografie dei parenti defunti: una spece di Larario; e qualche quadro di natura religiosa con il compito di morigerare i costumi.
A una delle pareti in casa Pillon, al Monterosso, pendevano due “mirabolanti orrori “.
Pierangelo ricorda le nere travi incombenti, nella casa degli zii, la penombra dell’ambiente e quell’odore di stantio che si sposava tanto bene alle cucine poco arieggiate: una cornice adatta al tema delle due immagini.

Nell’intenzione dell’autore, le due scene, contrapposte, avevano il compito di invitare gli abitanti del luogo e gli ospiti a prepararsi alla buona morte.
Il primo offriva lo scorcio di una camera con moribondo, un sacerdote benedicente, qualche persona cara in lacrime e un angelo pronto a guidare l’anima verso il Paradiso.
Il secondo, pure esso camera con moribondo, comprendeva persone in lacrime, un sacerdote scacciato e due diavoli, uno dietro la testa del malato e uno ai piedi. Quest’ultima figura mostruosa era un diavolo con corna, coda, artigli ed espressione ghignante.
Entrambi i quadri, colori “bui”, tetri non lasciavano indifferenti. La bestia guardava dritto negli occhi dell’osservatore e intanto, afferrato il moribondo per i piedi, faceva mostra di voler portarselo via. C’era di che meditare la notte.
Pierangelo ricorda anche il terrore che lo prendeva alla gola, affrontando quella cucina; avrebbe fatto volentieri a meno delle visite, ma non incontrare gli zii suonava offesa.

“ Ancora oggi quando mi viene in mente mi chiedo perché diavolo si tenessero in cucina in bella mostra quadri simili. Immaginate all’epoca nelle lunghe sere d’inverno con la luce fioca di una candela, od anche successivamente di una piccola lampadina, quale compagnia e quale allegrezza poteva dare un simile soggetto. Boh.” (da Pierangelo) 

Luigi Acco
Era una figura nota in contrà, vuoi per lo spirito arguto di cui dava sempre prova, vuoi perché era un gran lavoratore e un buon amico.
Divenuto vecchio, tuttavia, lasciò un po’ di fatica ai figli e, benché continuasse a dar loro una mano, si concedeva anche qualche ora di svago all’osteria da Marzari, al capitello. Una sera d’inverno Luigi, Bijo, sfidando il nevischio e il vento, si avventurò verso l’osteria per una partita a carte, in barba alle proteste della moglie.
Fuori il tempo faceva il diavolo a quattro e dalla Bocara dello Scaranto scendeva una bava da sollevare i sassi.
Bijo, conclusa la partita, all’Osteria del Capitelo guardò fuori dalla finestra. Ci pensò un poco e, fatti i suoi calcoli, si fece versare una sorsata di acquavite alquanto generosa. Poi, calzato cappello e tabarro, prese la strada di ritorno.
A mezzanotte, la moglie, non vedendolo arrivare, cominciò ad agitarsi.
“Gnancora qua che l’omo!”
Quando l’orologio segnò l’una, la poveretta andò a svegliare il figlio Giuseppe e, uno di qua, l’altra di là, andarono a cercare Bijo. Sul terreno s’erano accumulati circa 70 centimetri di neve e benché la tormenta fosse cessata e il vento si concedesse una tregua, l’impresa non era certo agevole.
Cerca che ti cerca, dell’uomo neanche l’ombra. Giuseppe, imboccata la viottola che scendeva verso Via Postumia, si faceva strada a fatica per avanzare verso il basso. Fu così che, arrivato ad un certo punto, scorse, tra il lusco e il brusco, un ‘ombra accosciata all’imbocco della carrareccia per i campi, presso la fontana.
“Ecco” pensò quello è mio padre morto di freddo, di sicuro!”

Mentre si avvicinava inquieto, percepì un rumore strano, un soffiare che non era di vento; come un raspìo, un grattolare e il rumore andava aumentando col diminuir della distanza.
Tese l’orecchio: non v’era dubbio il verso proveniva da lì. Provò un moto di paura: poteva essere un animale. Poi si fece coraggio e affrettò, più che potè, il passo.
Non era preparato, comunque, il figlio a tanto spettacolo: davanti a lui stava suo padre addormentato, seduto sopra un masso. Bijo dormiva un sonno pesante, e russava; intanto, intorno a lui, s’era formato un cerchio di terreno sgombro: la neve al calore del corpo s’era sciolta.

Mario Acco
A modo suo era un pittore, un poeta; uno che sapeva vedere gli Elfi dei boschi e le Fate dei fiori.
Aveva creato un miracolo di giardino, davanti casa, un orto incantato, dove abitava la Grazia e giocavano gli gnomi; l’artista passava ore e ore a parlare con le piante e a carezzare quella magnificenza.
Lì, l’uomo che sapeva far sorridere e ridere, il compagnone delle feste, ritrovava se stesso. 

I Rossetto
Le due Famiglie Rossetto del Monterosso contavano tanti figli. Due casette, porta con porta: due nidi di passeri, all’estremità destra della Corte.
La limitatezza delle risorse e la terra di monte furono pessimi consiglieri. Le famiglie migrarono. Angelo si sposa due volte. La moglie Emma Baldan muore di parto dopo la nascita di due gemelli. Angelo si risposa: arrivano altri figli.Il figlio Erminio si sposta a Iessolo di Ivrea, dapprima. Dopo alcuni anni tornano i nipoti. Vendono la casa a Maria Maran.
Il cugino Narciso con la moglie Maria Vaccarotti era già migrato a Latina: tra i figli anche due gemelli.
 

Una grande famiglia
Una corte come una grande famiglia.
Al Monterosso, Todesco e Vaccarotti son castellani. Come in Via Mulini si stenta a respirare aria di mutamenti. A dire il vero la ristrutturazione ha cambiato l’interno delle case; un poco anche fuori, ma ha rispettato tipologia e volumetrie; la corte è quella di ieri: grande, pulita e funzionale.
Protagonista è lo spazio. L’ampio slargo tra gli edifici, un tempo, ospitava una trentina di ragazzi: i Vaccarotti, i Frealdo, i Todesco.
Le sere estive erano un incendio di allegria; in platea l’anziana Isa Caldonazzo, Isa Cuca, la vecchia Gravellona, Nonna Elvira, Don Michelangelo, prozio e lo zio Costante Sogaro la bella Adelaide, allora giovane.
Quello? un palcoscenico di lusso con testimoni fuori classe.

I Vaccarotti
Il nome lo dice da sé: gli avi, i vecchi facevano i custodi delle vacche, probabilmente all’alpeggio o in qualche grossa stalla di un ricco possidente. Qui a Brendola coltivavano la terra, terra di monte, avara o generosa, a seconda delle stagioni, ma sempre impegnativa e restìa.
Il capostipite era Giuseppe. Sposò Drosolina Giacomazzi, dando così origine a una bella famiglia. Con il passare del tempo, vicende diverse coinvolsero figli e nipoti.
Anche la morte bussò e si portò via due bambini; altri membri se ne andarono in giovane età; i vari componenti presero sentieri nuovi. Al Monterosso restò solo Adelaide, sposata a Dante Sambugaro: una vita ricchissima di ricordi, densa di esperienze; una personalità forte e pregna di umanità.

 

Oggi. Adelaide è lì, fedele custode di un passato che non può tornare. Carica d’anni e acciaccata, ti osserva con due dolcissimi occhi ironici: “Chi sei? Hai visto come sto?” mentre lo sguardo dice anche altro: sono sola, sono vecchia; non posso andare dove vorrei; mi porto dentro una montagna di visi, Fermati e ascoltami!” Adelaide, la Signora della Contrà, la mezzadra dei Pillon, la mamma di Giovanni e Alfredo, la nonna, la vicina di casa.
“Ho la badante!” mi ha detto, l’equivalente di: “Ormai sono arrivata a fine corsa.”
Ma fin che la memoria regge, Adelaide è un mondo vivo, da non perdere.

Orsola Vaccarotti
Torna dal Brasile ed è proprio una bella ragazza. Antonio Frealdo si innamora della bella Orsola e i due si sposano. Lei ha quindici anni. Mentre Vaccarotti Pietro e mamma Angela tornano in Brasile, Orsola e il fratello Giuseppe restano. Orsola ha sposato Pietro; Giuseppe avrebbe sposato Maria Frealdo.

L’Oratorio
A guardare la teoria di case Todesco non si direbbe. Eppure il terzo edificio era stato attato a luogo di culto. La casa di Paolina aveva subito una modifica, per permettere allo zio Michelangelo, sacerdote, di officiare tutte le mattine.
Fin che ne era stato in grado, Don Michelangelo, accompagnato dal nipote Silvio in veste di chierichetto, si era recato a piedi fino alla Chiesa di San Vito, alla Piccola Corte Benedettina. Gli acciacchi e l’età avevano smorzato le energie dell’uomo; non lo zelo. Così Paolina Todesco conserva la Campanella della Messa.