Contrada del Lavo

Questa contrada non è cambiata nel tempo; il nome deriva da una fonte d’acqua che sgorgava da sempre copiosa e perenne dietro casa Marzari, sulla via che porta alla località Bocara.
Il percorso inizia partendo dalla chiesa, dopo 100 metri si trova a destra la villa del vescovado, antica residenza estiva dei vescovi vicentini, aveva la colombara e una stalla per i cavalli; un bell’arco permette il passaggio verso il parco retrostante.
Nei primi anni del secolo ne era proprietario il sig. Tassoni Alessandro, fu poi affittata al sig. Ferrari. Nel 1919 venne acquistata dall’arciprete don F. Cecchin e dai sig.ri Zonato Giovanni, Pieropan Francesco, Squaquara Giuseppe, detto Fuin, Castegnaro Antonio, Noro Gaetano per adattarla ad asilo parrocchiale, gestito da quattro suore Dorotee.
Nel caseggiato abitavano anche alcune famiglie di poveri come gli Alcunetti, Pozzan, la Bela che accudiva i bambini dell’asilo, e altri due vecchietti.
Nel 1937 la villa divenne proprietà del sig. Ugo Veronese, grande proprietario terriero del veneziano, il quale la rinnovò quasi completamente. Durante i lavori, il sig. Castegnaro Guglielmo racconta che due donne, Rosina Marzari e un’amica, che abitavano in contrà, passando dietro il fabbricato e vedendo che erano accatastate delle tavole e travature vecchie chiesero all’impresario, sig. Nicolato Francesco detto Chicchi Pacagnei, se potevano portare a casa qualche pezzo di legna per riscaldarsi e questo acconsentì.
Qualche giorno dopo, la sig.na Anna Zuliani (gazzettino della contrà) andò a riferire il tutto al proprietario sig. Veronese, provocando la reazione delle due donne che sfogarono battendo con dei bastoni sulla porta della Zuliani, rompendo tutti i vetri interni.
Nella parte retrostante abitava il gastaldo che curava il giardino, il vigneto ed aveva alcune mucche nella stalla.
Veronese Ugo e la moglie Antonietta erano senza prole, venivano saltuariamente e solo nel periodo estivo; Zimello Igino ricorda che andava spesso a giocare da loro con i nipoti. Fu chiesto a suo padre di adottarlo, ma il padre rispose: “come ho mantenuto fino ad ora sette figli, mantengo anche l’ottavo”.
Proseguendo la strada dietro la villa, superando l’arco sovrastante, subito sulla sinistra c’era una piccola casa a piano terra dove abitava Chiarello Lucia, detta Luzia Ciarela, faceva la sarta, riparava e rattoppava indumenti e camicie. Era la madre del fotografo Zerbato Guido. Questa casetta fu demolita per lasciare spazio e allargare la strada.
Sull’angolo, fra la strada principale e quella che porta a S. Valentino, racchiusa dentro alla proprietà, vi è la famosa e antichissima “croce bianca”, è una croce rozza in pietra tenera locale che la tradizione indica come luogo dove fu ucciso un vescovo, ma non c’è nessun documento che lo confermi.
Proseguendo per la via, dopo trecento metri sulla destra, in una bella villa settecentesca con foresteria abitavano le due famiglie di Girotto Francesco e Giovanni, distrutta da un incendio non è più stata recuperata.
Continuando la via, dopo un breve rettilineo, si arriva nella contrada Lavo. Sulla destra vi è una serie di abitazioni tutte unite; nella prima abitava la famiglia Todesco Ermenegildo, detto Gildo Fornaro, con la moglie e i figli: Nicla, Ivone, Spanio che faceva il fornaio e serviva tutta la contrà e quella della chiesa e fino al Castello.
Subito dopo abitava Buffo Ottorino (calzolaio ) che però aveva bottega in Valle. Di seguito abitava Frigo Luigi detto Iio Sigola (muratore) e dal cortile antistante entravano in casa la famiglia Giacomazzi Serafino, i figli Girolamo e Bruno, una sorella e la famiglia Frigo Giuseppe detto il Caporale; nella stessa corte, ma isolata, era la casa di Nandapi Adelchi, con moglie e sette figli.
Tornando sulla strada si poteva incontrare l’osteria con gioco delle bocce di Pietro Caldonazzo; la moglie era Faccioli Maria e avevano cinque figlie. Subito dopo, entrando in corte, abitavano due famiglie: Bisognin e Pilotto. L’ultima abitazione, con un bel portone d’entrata e porticato con stalla, era di Marzari Girolamo, coniugato con la maestra Traverso Maria.
Era la casa dove abitavano anche i fratelli Igino e Ferruccio Marzari, il primo morì nella prima guerra mondiale e il secondo (ufficiale pilota con tre stelle al merito) cadde durante un’esercitazione aerea a Guidonia nel 1921.
Dietro a questa abitazione, a lato di una strada sterrata che porta ad altre tre abitazioni più in alto, dove stavano Rezzante Angelo, il fratello Natale e Bedin Rosimbo, vi è la fontana del Lavo, che serviva l’omonima contrada e quelle del circondario fino quella della chiesa, tanto che nel 1892 l’allora sindaco Felice Piovene fece fare a sue spese il primo acquedotto che serviva le contrade Chiesa, Cerro e Vicariato. L’acqua si prelevava da varie fontanine dislocate in punti strategici.
Accanto alla fontana c’era il lavatoio, dove tutte le famiglie delle contrade vicine andavano a lavare i panni, a fianco si trovava anche l’abbeveratoio per gli animali, per questo chi passava al mattino o verso sera vedeva lì una fila di animali.

Il Bucato

Ecco come si svolgeva la giornata dedicata al bucato: più o meno una volta al mese le donne di casa andavano al lavatoio del Lavo, a cinquecento metri dalla chiesa, ma la sera precedente il lavatoio veniva prosciugato, tolti dalla vasca le foglie o il terriccio si chiudeva il tappo della vasca in modo che al mattino seguente si trovasse l’acqua limpida e pulita.
Alle sei del mattino partivamo con il cariolon (era una carriola un po’ più grande col fondo piatto) contenente il pesante carico di lenzuola e indumenti; essendo la strada un po’ in salita qualcuno di casa aiutava a trainare il mezzo con una corda legata sul davanti.
Potevano lavare contemporaneamente solo quattro lavandaie, ma questa era anche l’occasione per ritrovarsi tra donne o ragazze e bambini, per scambiarsi quattro chiacchiere mentre i bambini giocavano spruzzandosi l’acqua addosso.
Qualche volta nascevano delle discussioni per accaparrarsi il posto al lavandaro. La biancheria lavata e ben strizzata, si riportava a casa con il cariolon verso mezzogiorno e si stendeva ad asciugare su una corda sostenuta da pali.
Come detersivo si adoperava la lisciva, ma molti ed i più poveri adoperavano il sapone fatto in casa (saon). Questo si otteneva mettendo un paiolo sul fuoco con dell’acqua , quando era calda si versava dentro del sego o altro grasso animale, anche ossa, con una equivalente quantità di lisciva e soda caustica.
Dopo lunga ebollizione, l’impasto ottenuto veniva versato sulla tavola, come la polenta e, raffreddato e rassodato, veniva tagliato a piccoli rettangoli pronti per essere usati.
Come si può ben immaginare, questo tipo di sapone grezzo aveva un odore molto sgradevole, però lo si usava ugualmente anche per lavarsi il viso o fare il bagno dentro a un mestello.