LA COMUNITA’ DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

 

ESCHILO:

Tutta l’acqua dei fiumi non è in grado di lavare la mano insanguinata di un omicida

Siamo arrivati ad un’altra tappa storica importante e terribile la seconda guerra mondiale. Esistono montagne di libri e documentazione in merito. In questo periodo non si parla di acquedotto, pertanto mi limito a riportare alcuni episodi raccontati in questi giorni da alcune persone anziane .

Nonostante il tentativo di ottenere risposte sul periodo prebellico, Maria Negrin, vedova Tovo Teobaldo, mi racconta del suo matrimonio nel 1940, quando il marito partiva per la guerra e successivamente per la campagna di Russia. Ritornava l’alpino dopo aver perso le dita dei piedi per congelamento ed essere stato ricoverato alcuni mesi al Rizzoli di Bologna. Si era salvato dalla sacca di Nikolajevka e riportato in Italia su un treno carico di congelati. Maria, ricorda di essere rimasta a casa da sola con la suocera. Durante l’assenza del marito più volte i partigiani, nascosti sui boschi sopra contrà Muraroni, fecero visita a casa sua alla ricerca di cibo. Erano una ventina circa comandati da “Lorenzin” , fratello di Teresa De Santi. Teresa, come allora, abita in via Goia. Teobaldo era convinto sostenitore del fascismo come il suo amico Bedin Francesco, ancora vivente ed abitante in via Goia e Bolzon. In quel tempo le truppe

Frealdo Giuseppe

tedesche dislocate in Villa Veronese presso l’attuale “vescova”, svolgevano frequenti visite in contrada con la motocarrozzella per controllare i movimenti dei partigiani. Tutti sapevano, nessuno parlava della presenza dei partigiani in zona. Il rifornimento alimentare era difficoltoso e le poche spese si eseguivano presso il negozio di Campagnaro Luigi situato nell’attuale fabbricato di pizzeria Valle. I pochi soldi disponibili derivavano dal lavoro ad ore e dalla vendita di qualche gallina.

Frealdo Rita, classe 1916, moglie di Mario Castegnaro, nata e vissuta a Monte Rosso fino al giorno del matrimonio nel 1944. Ricorda la visione dal pianoro, davanti casa, dei bombardamenti su Montebello ad opera degli aerei alleati. In merito ai partigiani poco ricorda a parte il passaggio di qualcuno di essi in direzione Perarolo. Vivo nella mente è l’immagine degli sfollati da Vicenza. In particolare rammenta la rabbia di Gustavo Dalla Vecchia, sfollato in casa Castegnaro in contrà Costa, contro le truppe tedesche. Fino all’età del matrimonio aveva lavorato come mondina nel Vercellese, come raccoglitrice di foglie di tabacco presso la famiglia Pillon e un periodo come infermiera poco prima del matrimonio. Durante la guerra i fratelli Luigi, Gino e Pietro erano al fronte contemporaneamente. L’immagine degli americani che passavano con carri armati, cannoni e truppa lungo la strada proveniente da Perarolo è limpida nel racconto come se l’evento fosse avvenuto ieri.

Dovigo Fernanda, classe 1923, mi parla volentieri del passato. Abitante da sempre in località Cavicchie ha sposato a 26 anni Bonato Marco, classe 1914. Quest’ultimo nel 1936 partì per l’Africa promettendo di sposarsi al ritorno con Fernanda, ma durante la permanenza in terra straniera sposò una giovane africana che inviò a casa sua con un bimbo di pochi giorni. Dopo tre mesi di permanenza in Italia la giovane sposa morì annegata lasciando il bimbo senza madre. Marco alla notizia rientrò in Italia e dopo qualche tempo superate le resistenze di Fernanda si risposò portando in dote il piccolo Lino, adottato con amore dalla nuova sposa. La famiglia Bonato ha abitato sempre in località Cavecchie nella attuale casa costruita da Marco. Durante la guerra si aggiravano sui colli e nei boschi una ventina di partigiani che spesso comparivano in cerca di cibo. Anche allora esisteva una grande pozza di acqua nella stessa posizione dell’attuale laghetto di pesca sportiva che serviva ad abbeverare le greggi dei Marini, i pastori. All’inizio del sentiero di accesso era collocata una baracca analoga all’attuale dove la gente depositava le biciclette o altro durante gli spostamenti. Un giorno si sparse la notizia dell’arrivo dei soldati tedeschi in perlustrazione mettendo in allarme i partigiani li presenti che senza chiedere permessi ed autorizzazioni a nessuno si rimpadronirono delle biciclette per guadagnare velocemente i loro rifugi e mettersi in salvo.

Il sig. Bedin Albino“Albin Pelote” classe 1923 abita in una semplice casetta rustica in mezzo al bosco nella parte dei Colli Berici ad est di Brendola. Per accedervi si deve percorrere la provinciale che da Brendola conduce a Strabusene, poi all’incrocio di Perarolo si prende a destra verso S. Gottardo e dopo un chilometro, sulla destra, troviamo una carrareccia con l’indicazione via Montello che in 200 metri arriva alla casa di Albin Petote. Qui è nato ed è sempre vissuto, ora che è ottantenne conduce ancora una vita attiva dedicandosi al taglio del bosco, all’orto, alla manutenzione della casa piuttosto decadente. E’ una persona dall’aspetto ancora giovanile, aperto al dialogo, alla compagnia e, pur abitando così isolato dal centro, è a conoscenza degli avvenimenti principali del paese. Se passate da quelle parti in bici o a piedi, è facile incontrarlo nel cortile di casa, assieme ai due cani cui è molto affezionato,fermatevi, parlate con lui, ne resterete affascinati per la spontaneità con cui espone i suoi pensieri e le vicissitudini della vita che ha dovuto affrontare.

Quel giorno, passando da quelle parti per un giro con la mia mountain-bike, mi sono fermato per prendere un po’ di fiato, mi si è avvicinato e dopo le informali presentazioni ha incominciato a raccontare.. .

“Era il 2 settembre del 1942 quando a soli 19 anni partii per il servizio di leva lasciando a casa i genitori e cinque fratelli. Dovetti raggiungere Trento dove fui inserito nel corpo di artiglieria di campagna come soldato semplice. In seguito dopo un breve periodo di addestramento venni mandato a Salerno in una caserma che serviva per lo smistamento dei soldati sui vari fronti di guerra. Da qui alcuni vennero mandati in Russia, altri in Tunisia ed io in Grecia. Partimmo nel marzo del 1943 per Brindisi e da qui traghettammo con la nave per l’isola greca di GRAVIA’. Mi trovai con altri 40/50 militari al comando di un capitano,il nostro compito era quello di sorvegliare il porto , avevamo a disposizione 4 cannoni,eravamo in pochi e quindi dovevo fare la guardia quasi tutte le notti. In quell’isola della Grecia si stava bene, il cibo non mancava,il presidio italiano che aveva occupato l’isola fin dal 1942 possedeva campi coltivati, maiali, galline, frutta e verdure, avevamo anche una mietitrebbia per il frumento.

Nel settembre del 1943 purtroppo arrivano i tedeschi e ci viene proposto o di combattere o di arrendersi e diventare loro prigionieri. Il capitano ci riunisce nel cortile, espone la situazione e chiede un nostro parere sul da farsi invitandoci a considerare che i tedeschi avevano un carro armato puntato su di noi qual’ora avessimo scelto di combattere. Per alzata di mano decidiamo di consegnarci al nemico e di deporre le armi,ognuno di noi consegna la pistola e il moschetto. I tedeschi si mettono via le nostre pistole mentre i moschetti vengono distrutti. Il giorno dopo via in marcia a piedi per le strade della Grecia strettamente sorvegliati. Per 13 giorni camminiamo di giorno e dormiamo di notte all’aperto sotto gli ulivi, finalmente arriviamo alla ferrovia dove troviamo molti altri italiani prigionieri. Veniamo caricati su un treno per destinazione a noi ignota, in cuor nostro speravamo di essere mandati in Italia. Incomincia un lungo viaggio che durò venti giorni, senza mai scendere dal treno, chiusi in 40 in un carro bestiame, il vagone non venne mai aperto. Attraverso un piccolo finestrino ci passavano un po’ di roba da mangiare, pane e acqua,una volta ogni tre giorni. Nel carro non c’erano servizi ci davano dei pezzi di carta e dallo stesso finestrino da dove entrava quel poco di cibo, buttavamo fuori la carta con gli escrementi.

Non si sapeva qual’era la destinazione finale,per capire dove ci conducevano, passando dalle stazioni si guardava fuori da quel piccolo finestrino e si leggeva la tabella con il nome del paese. Dalle scritte avevamo dedotto di essere passati dalla Grecia,alla Macedonia,alla Serbia, alla Bulgaria, alla Romania e infine in Russia e precisamente in Ucraina.

UCRAINA (Russia )

In questo campo di concentramento rimasi per due mesi (ottobre-novembre 1943), trovammo numerosi prigionieri russi in condizioni pietose,ci avvertirono che il campo era circondato da un filo spinato dove passava corrente ad alta tensione, c’erano delle torrette con delle sentinelle munite di mitragliatrice e altre che di notte manovravano dei potenti fari. Si dormiva su letti a castello a tre piani,si mangiava una sola volta al dì, una brodaglia di foglie di barbabietola con un pezzetto di pane nero. La sorveglianza dei prigionieri era affidata ai militari delle S.S. e alle guardie civili del T.O.P. che portavano sul braccio una fascetta rossa con la scritta T.O.P. ,c’erano anche dei cani dall’aria piuttosto feroce. Un giorno agli italiani chiesero chi era disponibile ad andare a raccogliere le patate fuori dal campo, per costoro ci sarebbe stato un trattamento più benevolo. Mi offrii volontario e così al mattino andavo a “cavare” patate, in fila per tre si camminava fino ai campi coltivati dove si lavorava fino a sera. A mezzogiorno per noi che lavoravamo arrivava un carro trainato da un cavallo con sopra un grosso caldiera, con un mestolo ci servivano in una terrina una minestra con patate e anche un bel pezzo di carne. Ogni mattina, all’alba, vedevamo uscire un carro tirato da buoi con sopra dei sacchi chiusi, erano i prigionieri russi che durante la notte erano morti di stenti e di nefrite. Venivano portati al di fuori della recinzione e buttati in una fossa comune e ricoperti con la terra che era stata tolta per preparare la fossa per il giorno dopo, era uno spettacolo agghiacciante. Intanto il fronte di guerra russo era avanzato pertanto verso la fine di ottobre del 1943 fummo caricati di nuovo su dei carri bestiami e con il treno ci condussero fino a Dortmund in Germania.

DORTMUND (Germania )

Qui rimasi per 12 mesi fino all’ottobre del 1944 in un campo di prigionia recintato da filo spinato fino a 4 metri di altezza, con torrette sugli angoli dove vigilavano i soldati delle S.S. Nel campo c’erano diverse baracche che ospitavano una trentina di prigionieri per edificio,si dormiva su letti a castello con la paglia a fare da giaciglio, faceva molto freddo ed avevamo soltanto la nostra ormai logora divisa da soldato italiano e la coperta da campo. Le scarpe ormai non c’erano più, avevamo invece degli schabò di legno. Si mangiava poco e male, ti davano una minestra di orzo con del pane ma poco e mai ti davano della carne, c’era invece sempre a disposizione una caldiera di te’ , ma anche per i tedeschi il cibo scarseggiava. Si bevevo così tanto te’ che molte volte di notte ci si pisciava addosso. Per integrare un po’ l’alimentazione si andava lungo la recinzione e si raccoglievano erbe,radicchio e “pisacan” che poi si cucinavano.Tutti i prigionieri erano obbligati a lavorare. A secondo del turno, al mattino o verso sera, si apriva il cancello del campo e a piccoli gruppi di 20 alla volta, scortati dalle S. S. si andava a piedi fino alla miniera distante 4 chilometri si scendeva a 500 metri di profondità per estrarre il carbone, eravamo sempre con i piedi immersi nell’acqua. Qui nella miniera eravamo sorvegliati dalle guardie del TOP , si lavorava per dodici ore consecutive senza interruzioni. Per chi lavorava nella miniera c’era la paga di circa 1 marco al giorno, con quei soldi si poteva andare allo spaccio a comperare sapone,lamette da barba, birra nera ma niente cibo perché non c’era nulla. Io ero chiamato il balilla perché ero il più giovane,ed ebbi la fortuna di ricevere da un SS l’incarico di portare 2-3 volte alla settimana un sacco di 7-8 chili di carbone alla sua amante che abitava a circa 100 metri dalla miniera. La donna aveva compassione e mi offriva un panino con burro e marmellata intimandomi di non dire niente a nessuno. Anche il soldato delle SS mi raccomandava il silenzio assoluto pena una punizione severissima , così quando dovevo fare la consegna, per non far capire ai miei compagni dove andavo, raccontavo che dovevo andare alle latrine.Quei due o tre panini che mangiavo ogni settimana mi permisero di resistere alle fatiche della miniera e alle privazioni del campo di prigionia.Non sapevamo mai quale giorno fosse della settimana, si lavorava tutti i giorni, non sapevamo neanche quando fosse natale o quando domenica, i giorni erano tutti uguali.In questo campo eravamo tutti prigionieri militari italiani, si andava tutti d’accordo, ci si aiutava, nessuno tentava delle fughe tanto dove si poteva andare, ti avrebbero senz’altro ripreso e fucilato. Si poteva anche scrivere a casa, la posta andava consegnata allo spaccio e alcune lettere sono anche arrivate e mia mamma le aveva conservate. Lei mi scriveva e soffriva perché una volta (non per colpa mia ) era stata per un anno senza ricevere mie notizie. Mi mandava anche dei pacchi con calze e maglie di lana, una volta vi trovai un salame,era arrivato dopo due mesi e malgrado fosse un po’ rancido lo mangiammo tutto in compagnia. Mi giunse anche del tabacco, lo consegnammo alle SS in cambio di pane. Nell’ultimo periodo c’erano continui bombardamenti, la città di Dortmund era rasa al suolo, i muri degli edifici ridotti a macerie non erano più alti di un metro una volta nel cielo ne contai fino a 300. Il campo malgrado fosse illuminato anche di notte non venne mai bombardato tuttavia il rumore delle bombe che scoppiavano nelle vicinanze e le nuvole di fumo e fiamme che si alzavano dalla vicina città metteva i brividi. Gli alleati stavano avanzando per cui verso la fine di ottobre del 1944 il campo venne chiuso e fui trasferito in treno in nuovo campo di prigionia a pochi chilometri da Berlino e precisamente a Kassel. Eravamo circa in 300 e il nostro compito era di costruire una ferrovia che giungesse ad una raffineria di petrolio, noi preparavamo il fondo di ghiaia e poi si posavano i binari. Qui trovai due compaesani Buffo e Filotto Angelo. Si viveva sempre in baracche sorvegliati dalle SS, il capo era un Lager-Furer molto cattivo, ogni tanto puniva qualche prigioniero con una serie di frustate. Si lavorava per 6 giorni alla settimana e alla domenica eravamo liberi di uscire e giravamo a piedi nei dintorni in cerca di cibo chiedendolo a qualche famiglia o aguzzando l’ingegno. C’era un vecchietto che ogni giorno vedevo passare con un secchio e andare in campagna a portare gli avanzi di casa alle galline e ai conigli che teneva a circa un chilometro di distanza dal campo. Diverse volte avevamo aspettato che depositasse la merce e dopo che si era allontanato andavamo a prendre ciò che si trovava, erano soprattutto bucce di patate. Ma il vecchio si accorse delle mie scorrerie ,venne nel campo e mi denunciò a una guardia delle SS. Costui prese un bastone e mi picchio più volte sulla testa,sulle spalle e sulle braccia, caddi a terra privo di sensi, il militare tedesco allora si spaventò mi sollevò e mi condusse nel suo ufficio, mi diede del the e mi disse di rimanere nella stanza al caldo finchè non mi fossi sentito bene. Un altro modo di procurarci un po’ di cibo era di andare vicino alle fattorie, di trovare le buche rivestite di paglia di segala dove i tedeschi seppellivano le patate al riparo dal gelo, si scavava sotto terra con le mani e si estraevano 3-4 patate si portavano al campo, si tagliavano a fettine e si mettevano sulla stufa a carbone che avevamo nella baracca, quando la patata si staccava dalla piastra si poteva mangiarla. Un’altra consuetudine dei tedeschi era di lasciare i covoni di frumento all’aperto anche d’inverno perché si seccassero, noi alla domenica o di notte andavamo con le mani a sfregare sulle spighe e i chicchi che riuscivamo a raccogliere li portavamo al campo li cucinavamo con l’acqua e si mangiava questa specie di minestra di frumento. Una notte i contadini se ne accorsero, chiamarono le SS che muniti di lampade e mitra arrivarono e spararono, noi scappammo di corsa verso il campo di prigionia senza che nessuno fosse ferito. Ma al mattino ci schierarono tutti in fila e con dei cani pastore passarono in rassegna ognuno di noi e i cani seppero indicare quali prigionieri avevano fatto l’incursione notturna. Le punizione in questo caso fu che si dovette lavorare di più e subire le frustate da parte del Lager-Furer. Qui trascorsi sia in Natale del 1944 e la Pasqua del 45 ma per noi prigionieri erano giorni molto tristi. L’Italia fu liberata il 25 aprile del 45 ma per noi a Kassel la guerra continuò ancora alcuni giorni e dopo aspri combattimenti e bombardamenti nelle vicinanze ci trovammo senza le guardie, allora scappammo in sei in un bosco nelle vicinanze . Nei pressi passava una grande arteria stradale vedevamo passare molti camion e dalle insegne degli autocarri capimmo che erano arrivati gli americani scendemmo in strada,alcuni si fermarono e poiché c’era qualcuno che parlava italiano ci informarono delle ultime vicende belliche e quasi contemporaneamente arrivarono anche i russi. Avevamo tanta fame e pertanto chiedemmo di darci del cibo,i soldati alleati ci indicarono di andare alla stazione ferroviaria dove effettivamente prelevammo un sacco di riso da 50 Kg. Nel campo rovistammo nelle stanze delle SS e trovammo 30 Kg. di burro,finalmente potemmo mangiare con una certa abbondanza per un po’ di giorni. Un giorno di luglio stanchi di aspettare prendemmo un carrettino vi caricammo un po’ di vettovaglie e partimmo per tornare in patria dirigendoci verso la linea ferroviaria fino ad una stazione principale. Qui gli americani ci chiesero cosa stessimo combinando e ci rispedirono indietro fino al nostro campo dove avremmo dovuto attendere ordini prima di partire. Dopo due giorni scappammo di nuovo e andammo sempre verso la ferrovia ma in direzione opposta rispetto alla volta precedente. Giunti alla stazione trovammo un treno carico di legname con la scritta Italia, ci salimmo, ci sistemammo alla meglio tra i respingenti e dopo alcuni giorni arrivammo a Innsbruck dove fummo fermati e fatti scendere. Fummo condotti in un campo di smistamento dove c’erano americani e italiani che prestavano i primi soccorsi ai reduci dai campi di prigionia,quelli ammalati venivano mandati negli ospedali gli altri dopo una bella pulizia, cambio di vestiti e controllo dello stato di salute potevano proseguire il viaggio verso l’Italia. Qui rimasi 8 giorni e trovai un altro brendolano Molon Giovanni con lui salimmo sul treno per Verona e poi per Pescantina dove c’era un altro campo di smistamento. Con un carro trainato da un vecchio trattore giungemmo a Lonigo e poi all’Orna. Qui trovammo il papà di Giovanni che con un calesse ci portò a casa sua in Valle dove ci diedero da mangiare in modo abbondante anche troppo e qui trovai mia sorella Assunta che nel frattempo senza che io lo sapessi si era sposata.Era la terza domenica di luglio, lo ricordo benissimo perché a Madonna dei Prati c’era la tradizionale sagra dell’Assunta. Verso sera partii a piedi e tornai qui nella mia casa dove ero nato.

Ero partito da casa che avevo 19 anni e vi tornavo che ormai ne avevo 22.

Purtroppo in quei tempi a Brendola non c’era lavoro, e non mi andava di stare senza far niente dopo quello che avevo passato, per cui nel 1947 partii per il Belgio per lavorare in miniera. Vi rimasi solo 6 mesi, era un lavoro troppo pericoloso, la miniera era a solo 1 Km. dalla quella che successivamente divenne famosa di Marcinelle, si estraeva il carbone in cunicoli che erano situati a 1000 m. di profondità, si estraevano notevoli quantità di carbone,si procedeva nelle gallerie senza tanto puntellare le volte, per cui i crolli erano frequenti, c’era anche il pericolo del grisù, lungo le gallerie c’erano delle lampade ad olio, quando la fiamma cominciava a traballare il sorvegliante ci faceva ritornare al più presto al pozzo dove si risaliva celermente. C’era un grosso inconveniente in questa fuga, in genere per arrivare al pozzo e risalire dovevamo percorrere quasi 1 Km. Ritornai a Brendola ma il lavoro non si trovava e così nel 1955 andai in Francia e svolsi il compito di cavatore di barbabietole per due stagioni di seguito con un contratto a cottimo. Ritornato a Brendola trovai finalmente lavoro da Dalli Cani a Tavernelle e successivamente da Ciscato all’Orna dove ho maturato l’età per la pensione. Attualmente oltre alla pensione di vecchiaia ricevo anche quella di guerra (mi sono stati riconosciuti 4 anni figurativi in azioni di guerra ) il cui importo mensile è di £. 30.000”.

Comincia la crisi vera e propria del partito fascista.

Nel dicembre 1943 arriva, inviata dall’ufficio Organizzazione dell’Opera Nazionale Balilla del Comitato Provinciale di Vicenza, una missiva al Podestà, al segretario del Fascio Repubblicano, con la nomina di Gastone Zaccaria a commissario straordinario del Comitato Opera Nazionale Balilla di Brendola.
Questo sig. Zaccaria Gastone è lo stesso che sarà implicato nella morte dei partigiani in contrà S Valentino, presso il luogo dove esiste tuttora il cippo a memoria.
Il podestà provvederà a fare consegnare i beni mobili ed immobili già appartenenti alla cessata Gioventù Italiana del Littorio.
Nelle pagine seguenti è visibile il verbale di consegna con la descrizione dei beni

Ma la guerra non è finita e qualcuno, a Brendola, ha il coraggio di diffondere, dopo l’8 settembre 1943 ,un foglio particolare

Non mancano anche ordini perentori.

Evidentemente durante la guerra i problemi idrici passano in secondo piano di fronte a morte e distruzione. Negli anni 1940-1941-1942 era podestà il maestro Tonin. A Brendola il consuntivo dei danni di guerra compilato dall’amministrazione comunale si concretizza in poca cosa: qualche banco, sedia e imbrattatura di muri.

Il nuovo podestà Maffei si preoccupa e detta un’ordinanza.

Non mancano diatribe: ecco quella tra il Comune ed Ugo Veronese, proprietario dell’ex asilo in villa Ferrari.

Ecco la pronta risposta.

Nell’anno 1945 abbiamo alcune richieste e comunicazioni

 

Ciacole andando per acqua”