“FAR SPESE”

Fin dall’epoca primitiva la pratica del commercio, seppur in forma rudimentale, è stata veicolo di cultura, mezzo per una apertura verso altri modi di vivere, occasione di progresso e di cambiamento.

Il passare del tempo e il progresso dei mezzi ci ha condotti alla realtà odierna; dalle statistiche dei paesi più evoluti emergono i dati che attribuiscono il ruolo preminente nelle attività di un paese industrializzato e ben sviluppato al settore terziario, quello che per antonomasia si riferisce ai servizi, tra cui il commercio.

Oggi più che mai è importante vendere piuttosto che produrre, di certo questo assioma non si riferiva alla realtà della civiltà contadina che per tanti anni ha caratterizzato il nostro paese, perlomeno fino alla comparsa delle prime forme di attività artigianale e industriale sviluppatesi negli anni Sessanta.

In quella realtà il commercio era una attività marginale rispetto a quella principale dell’agricoltura; essa era praticata da un numero assai ridotto di persone di cui solo poche erano originarie del paese, la maggioranza proveniva dai paesi vicini o addirittura dai luoghi di montagna.

Bisogna perciò fare una netta distinzione tra il commerciante insediato nel territorio e il commerciante ambulante. I primi si facevano carico dell’approvvigionamento dei viveri e delle richieste che potevano provenire dalle esigenze della gente del paese, a seconda delle condizioni economiche, ed erano le varie botteghe dei “casolini” dislocati nei vari punti del paese. Essi si potevano definire un supermercato in miniatura, visto che potevano offrire una vasta gamma di prodotti: da quelli alimentari, alla merceria, all’abbigliamento, dalla tabaccheria alla cartoleria, ai giornali, e tutto ciò che non era presente nel negozio poteva essere procurato su ordinazione, salvo attendere qualche giorno. Allora non esisteva la regola del “tutto e subito”, anzi un oggetto era prima pensato, poi ordinato, poi atteso, poi finalmente posseduto e ognuno di questi passaggi creava attesa e soddisfazione.

Chissà se la fretta di oggi ci procura altrettanto piacere! I secondi rifornivano i propri clienti di prodotti che servivano in certi periodi dell’anno o di prodotti voluttuari.

L’arrivo dell’ambulante segnava quindi la stagione, il mese, il giorno; era una tappa attesa e programmata e diveniva una occasione per informarsi su tantissime cose, infatti l’ambulante, insieme al suo prodotto, aveva il compito di portare le novità sui fatti di cronaca del circondario, sugli avvenimenti politici di cui era corsa voce, sui matrimoni, fidanzamenti, nascite e malattie di persone che vivevano nei paesi vicini, magari imparentate o conoscenti dei locali.

Per le donne più ambiziose potevano anche esserci delle indicazioni sulla tendenza della moda, sui colori dell’annata o sul genere di accessori da abbinare a questo o a quel capo.

Ben testimonia questa situazione la scena del film “L’albero degli zoccoli”, di E. Olmi, che ci descrive con maestria l’arrivo alla fattoria dell’ambulante. Qui di seguito verranno citati gli ambulanti che percorrevano le vie del nostro paese e sarà nostra cura dipingere le loro caratteristiche o raccontare qualche aneddoto sulle loro figure. Ci siamo avvalsi per questo delle memorie forniteci dal gruppo anziani e per questo sentitamente li ringraziamo.

“BIANCHERIA, SPAGNOLETI, BOTONI”

Il posto d’onore spetta a “l’ometo e la doneta” i coniugi Angelo e Maria Gaio, provenienti da Lamon (BL) e stabilitisi nel nostro paese nel 1955. Il loro lavoro consisteva nel percorrere le vie di Brendola o dei paesi vicini per portare ai loro clienti prodotti di merceria, ma vendevano anche occhiali, pettini, saponi e profumi.

Dapprima i signori Gaio seguivano un percorso distinto: Angelo utilizzava come mezzo di trasporto la bicicletta, mentre Maria si caricava sulle spalle un saccone e teneva per mano una valigia. Ambedue si inerpicavano nelle contrade più lontane per garantire un servizio capillare. Quando gli affari migliorarono essi si munirono di un nuovo mezzo di trasporto: una “vespa ape“; a quel punto il percorso divenne comune fin dove la potenza del motore poteva sostenere il percorso. Là dove la Vespa non ce la faceva, Maria non disdegnava di riprendere il suo carico sulle spalle per raggiungere i suoi fedeli clienti che l’attendevano agli “Arsisi”, alle “Grotte”, alla “Costa”, al “Lavo”.

Nel 1964 anche per Angeleto arrivò la meccanizzazione, così si rifornì di un “FIAT Coriasco” e finalmente la “doneta” poté smettere di caricarsi sulle spalle la sua bottega.

Il passaggio della “doneta” per le contrade era occasione di festa per tutti, i bimbi correvano ad avvisare le madri, che solerti uscivano nel crocevia e si ammassavano intorno al “camieto” rosso incuriosite di fronte alle ultime novità. I bimbi venivano accontentati con il regalo di qualche nastrino e di qualche bottone rimasto spurio o con le belle scatole che avevano contenuto fili o asciugamani.

Non solo i colori della merce colpivano gli occhi delle compratrici, ma anche il profumo che emanava dalla merce, era un odore di nuovo, di fresco, di pulito, di lavanda, di essenza e la modesta cosa che veniva acquistata portava in casa una porzione di quel dolce aroma.

Il turno del passaggio per le contrade era settimanale o, nei punti più accessibili, anche bisettimanale a giorno fisso. I coniugi Gaio hanno esercitato questa loro attività con le stesse modalità fino agli anni ’90 quando con diritto sono andati in pensione, ma felici hanno lasciato in eredità questo loro mestiere a Sandra che lo prosegue tuttora servendo quelle persone anziane o sole o malate che non potrebbero frequentare i fornitissimi negozi della città.

I signori Gaio avevano un concorrente: “il toscano“, soprannome derivato probabilmente dalle sue origini, un signore di robusta costituzione, di carnagione scura che vendeva capi di merceria e aveva come mezzo di trasporto un’ape con il cassone rinforzato con nervature in legno. Il suo servizio si attuò alla fine degli anni ’50 fino ai primi anni ’60, ma la merce che offriva non era di grande qualità per cui la clientela cominciò ad avere delle defezioni e ben presto il toscano abbandonò la piazza di Brendola.

Nel settore particolare della vendita delle stoffe ricordiamo la figura del signor “Moscon“, un ambulante proveniente da Alte di Montecchio che percorreva le vie di Brendola settimanalmente per rifornire le clienti di stoffe o di qualche capo già confezionato introducendo così l’uso del “pret à porter”.

Signore distinto, di alta statura, elegante e ben curato, molto disponibile, caricava la sua “FIAT 1100″ di pezze di stoffe varie, adatte alla stagione incorso, sia per donna che per uomo e di scampoli (avanzi di pezze) offerti a prezzi accessibili anche ai portafogli più modesti.

Quando negli anni ’60 il signor “Moscon” aprì un negozio ad Alte, invitava le sue clienti a far capo al negozio stabile, così si creò un filo diretto tra Brendola e Alte finché gradatamente venne a cessare il suo commercio ambulante.

Altro venditore di stoffe era il signor Felice proveniente da Meledo, egli percorreva le vie di Brendola con un “ducato” panna carico di stoffe e di capi già confezionati. Si fermava nei punti del paese dove c’erano delle sartine o delle appassionate di cucito e le riforniva di quanto serviva loro, per la confezione in casa dei capi.

Saltuariamente arrivavano in paese, e specialmente nelle contrade più lontane, dei fornitori occasionali che si presentavano nelle case dove erano numerose le ragazze da marito e offrivano “pacchi-corredo” che venivano descritti come dei veri affari straordinari.

La cosa consisteva nell’acquisto di un pacco preconfezionato contenente lenzuola, asciugamani, tovaglie, canovacci e come incentivo all’acquisto c’era l’offerta di una macchina da cucire. Il tutto nascondeva delle pesanti truffe in quanto la merce risultava poi di scarsa qualità e la macchina da cucire era di modesto valore.

Un commerciante piuttosto “sui generis” era “Polidoro” un signore residente in via Valle, piccolo di statura, calvo, con un pronunciato addome, commerciava calze, fazzoletti, ma anche tegamini, pentolini, coltelli, forbici, sapeva conciliare la sua attività di venditore ambulante con il gusto della chiacchiera e del pettegolezzo, si intratteneva per molto tempo nelle contrade dove c’erano parecchie ragazze e sperava sempre di trovare la sua anima gemella. Quando era ormai avanti negli anni, trovata una compagna, abbandonò questo lavoro.

Altro genere di commercio riguardava tutte le attività marginali al lavoro del contadino e tra esse ricordiamo “el polastraro” altrimenti detto “polastri”; era un signore che proveniva da Montebello e che si recava nel nostro paese dapprima con la bicicletta e successivamente con la moto opportunamente adattata al trasporto degli animali, infatti aveva collocato una particolare gabbietta davanti e dietro al mezzo nella quale collocava i capi da portare ai clienti o che acquistava dai clienti. Commerciava ogni genere di pollame e di conigli, tuttavia si prestava anche allo scambio di galli o di conigli per la riproduzione in quanto la massaia desiderava periodicamente rinnovare la produzione con una generazione nuova. I componenti delle famiglie non erano contenti di questa visita in quanto vedevano assottigliarsi le occasioni di consumare un lauto pranzetto, ma la testimonianza di un anziano ci dice che per poter gustare un “polastrelo” c’era una sola soluzione: colpirlo di nascosto con un sasso e poi far notare alla massaia che l’animale era ferito per cui non lo si poteva più vendere al “polastraro”, era quindi necessario consumarlo in casa e così cominciava la festa.

In vicinanza della vendemmia giungevano per le contrade i venditori di ceste; erano appartenenti alla famiglia Marchezzolo di Altavilla che fabbricavano in casa le ceste e i cestoni, arrivavano con un carretto a mano stracolmo di questi contenitori; essi erano di due tipi: quelli destinati alla raccolta dell’uva, che erano fatti di rametti di salice abilmente intrecciati, erano scuri con un manico liscio bianco e levigato, e quelli destinati a contenere il pane o la biancheria erano fatti di rametti di nocciolo ed erano privi della scorza quindi erano chiari e lindi.

Sempre in autunno arrivavano dai luoghi di montagna o dal Friuli “i scaucinari” venditori di attrezzature in legno per le botti (canole e canolini), per il lavoro a maglia (ferri, guciarolo), per i bambini (sonagli, pupazzi, piccoli carretti), per la cucina (mestoli, fungo per schiacciare i fagioli nel minestrone). Erano figure caratteristiche con un abbigliamento particolare, pantaloni alla zuava per gli uomini, gonne arricciate e ampio grembiule per le donne. Essi portavano la loro merce su delle particolari impalcature di legno che tenevano sulle spalle.

Una raccolta particolare più che un vero e proprio commercio era l’attività inventata dal signor “Bepi Gripia“, soprannome che si era meritato per un aneddoto legato alla sua vita; egli infatti, per evitare di presentarsi al servizio militare, si nascose dentro la mangiatoia delle mucche. Residente in via Maraschion, figura originale, ribelle a qualsiasi imposizione, spirito libero, legato alla natura, per sopravvivere, non avendo alcuna sovvenzione pensionistica, si inventò il lavoro di raccolta di escrementi di mucche, buoi, asini che percorrevano le vie del paese per andare ai campi per l’aratura o il trasporto del fieno o delle granaglie. Egli si impegnava a tenere pulite le strade e costituiva un deposito di letame che vendeva poi a coloro che ne avevano bisogno per la concimazione dei campi e degli orti in un’epoca in cui non c’era ancora l’invasione della chimica.

“OVI, TANTI OVI”

Un ampio spazio aveva questo tipo di commercio perché strettamente legato al bisogno primario di nutrirsi. Ricordiamo l’attività della famiglia Valdagno dedita al commercio delle uova.

Francesco Valdagno risiedeva in via Valle e Bortolo in via Revese. L’attività era gestita dai figli di Bortolo che, emigrati nella città di Milano, conducevano con successo la gestione di questo commercio; essi infatti avevano delegato quelli che erano rimasti a Brendola alla raccolta di uova che poi adeguatamente selezionate e confezionate venivano trasportate a Milano e di lì smerciate nei vari negozi della grande città. La raccolta non era limitata a Brendola, ma investiva molti paesi limitrofi, infatti i Valdagno si recavano presso i mercati dei paesi vicini (Montecchio, Chiampo, Montebello, Castelgomberto) con cavallo e birocio e lì compravano e sistemavano su apposite casse le uova che le massaie avevano raccolto durante la settimana; era quella, per le donne di allora, l’unica forma per disporre di denaro liquido, ecco perché le massaie erano molto affezionate alle loro galline e quasi le coccolavano per avere qualche uovo in più. Quanti conti avranno fatto le nostre nonne su quelle modeste cifre che potevano venire dalle uova delle loro galline!

Contribuivano alla raccolta delle uova le “zelatrici missionarie“, signorine del paese che si impegnavano a passare di porta in porta per chiedere una offerta per le missioni in Africa e in America del Sud. Non essendoci però grande disponibilità di denaro, le famiglie offrivano delle uova che poi venivano vendute ai signori Valdagno e il ricavato veniva offerto alle missioni.

“EL MUNARO”

Per generazioni la famiglia Campagnaro ha praticato l’attività del mugnaio, azionando il mulino installato presso il Fiumicello.

Per integrare la loro attività principale si sono dedicati anche al servizio a domicilio, infatti utilizzavano il loro mulo e il carretto e passavano per le vie del paese nei primi giorni della settimana, raccoglievano i sacchi di frumento o di mais da macinare e li restituivano dopo un paio di giorni a lavoro eseguito.

Il servizio venne velocizzato negli anni ’60 con la sostituzione del camion al posto del mulo.

Anche a Vò esisteva un analogo servizio gestito dal signor Antonio Bonamin detto “Toni Mestra” e sono ancora molti a ricordare l’Ape azzurra con alla guida Toni, con il caratteristico copricapo fatto da un fazzoletto con le cocche ai quattro cantoni, imbrattato di farina, ma sempre molto affabile e disponibile al dialogo, forbito nelle sue considerazioni e allegro nelle sue battute.

“I SIORI BASSO”

Nell’immediato dopoguerra giungevano da Vicenza mensilmente in paese i signori Basso, padre e figlio, signori distinti, taciturni, per vendere di contrada in contrada olio d’oliva e di semi.

Costoro si rifornivano di olio in fusti dalla Puglia e dalla Toscana, poi mescolavano le varie qualità e riempivano lattine da cinque litri, bottiglioni da due litri e bottiglie da litro che offrivano poi ai clienti.

Raggiungevano quasi tutte le contrade del paese e quando il loro mezzo di trasporto non riusciva ad affrontare certe pendenze, facevano parte del percorso a piedi. Pur commerciando un prodotto untuoso erano sempre lindi e puliti, avevano infatti delle apposite pezzuole per pulire i contenitori e le mani. Quando il padre divenne anziano, il lavoro venne continuato dal figlio che ci rifornì di olio fino agli anni ’80 quando anche lui raggiunse l’età della pensione e cessò l’attività.

“LE SAGRARE”

Settimanalmente, o in occasione di festività particolari, nella piazza della chiesa di San Michele si stanziavano le venditrici di sagra, dolcetti di vario tipo, antenati delle odierne pastine e dei vari tipi di biscotti, o di meringhe.

Queste venditrici erano madre e figlia, la prima piccola con una leggera gobba e un occhio strabico, la seconda più grande, di robusta costituzione, che risiedevano in una casupola del borgo vecchio sottostante la chiesa. Quel tipo di commercio era l’unica fonte per il loro sostentamento, successivamente venne integrato con la vendita del latte per le famiglie della contrada.

Queste venditrici erano molto amate dai bambini, che stavano per parecchio tempo, prima di entrare in chiesa, a rimirare quel modesto banchetto fatto di un tavolino coperto con una tovaglia bianchissima su cui veniva posato il cesto contenente la sagra. Molto spesso tutto il tempo della celebrazione veniva dedicato a fare delle considerazioni sul costo del pezzo di sagra e sulla piccola moneta di metallo che si teneva stretta nella mano sudata e che era la piccola mancia della domenica, sospirata per tutta la settimana e sempre troppo modesta per soddisfare i grandi desideri.

“I LATARI”

Nelle varie contrade, le famiglie che praticavano l’allevamento bovino utilizzavano parte del latte prodotto per venderlo agli abitanti della contrada; anche questa era una maniera modesta per avere del denaro liquido costante, prima della vendita delle granaglie o dell’uva e del vino. Questo denaro serviva per assolvere alle necessità più impellenti o ai bisogni più immediati, come l’acquisto di medicinali o di quaderni o di pennini per i figli che andavano a scuola.

“ANGURIE E MOLONI”

Nel periodo estivo passava per le contrade “Milio Dordo” (Emilio Rigolon) con la sua Ape carica di angurie di dimensioni e di qualità varie. Commerciante di robusta costituzione con grande abilità nel convincere i compratori della prelibatezza del suo prodotto.

Altro fornitore di angurie era il signor Mario Alcuniti, detto “mussa“, ritornato in paese dopo il lavoro esercitato nelle miniere di carbone in Belgio e che voleva integrare la pensione con questo lavoro stagionale.

Molte erano le “molonare” che si insediavano nei vari punti del paese lungo i corsi d’acqua a Madonna dei Prati e Vò e ai Ponticelli nei mesi di luglio, agosto e settembre. Esse diventavano i luoghi di ritrovo dei giovani che organizzavano festicciole tra coetanei con musica, balli e tanta allegria.

“I MAGAZINI”

Questa era una forma del tutto particolare di commercio ambulante, infatti quando si avvicinava la stagione calda e nelle fattorie c’erano delle giacenze di vino, per evitare che questo si potesse deteriorare, si indiceva una vendita accelerata. Si comunicava l’apertura per quella certa data del magazin e in quella casa si preparavano uova sode, una sopressa, un po’ di formaggio e un cestone di pan biscotto e poi si contava sulla partecipazione di molti acquirenti.

Per la riuscita del magazin si dava libero sfogo alla fantasia, allora qualcuno invitava un suonatore di fisarmonica, qualcun altro improvvisava uno spettacolino con le maschere, anche i bambini potevano rallegrare le giornate con la recita di alcune poesie, gli attori amatoriali che recitavano nelle commedie del paese declamavano parti delle loro opere, i cantori ripetevano le romanze delle opere liriche. All’indomani si misurava il successo del magazin con il vino rimasto nei fusti.


“EL MARCÀ”

Il momento più emozionante del commercio ambulante lo si ha con il mercato che a Brendola si svolgeva e si svolge tuttora il sabato mattina. Un tempo il luogo di ritrovo era in piazza a Revese, davanti a casa Girardi, e lungo via Lamarmora, oggi in Piazza Mercato. I banchi erano quelli delle scarpe, di frutta e verdura, delle mercerie, delle uova, del formaggio, in qualche angolo trovavano posto anche le venditrici di pulcini o di conigli.

D’estate o per Natale si aggiungeva un banco di giocattoli per i bambini. Il mercato era un punto d’incontro per tutti gli abitanti del paese, ma a questi si aggiungevano abitanti di Grancona, di Perarolo e San Gottardo e quelli della Selva di Alte.

Questa forma di commercio è più che mai viva ancor oggi e sono molte le persone che di settimana in settimana si ritrovano per le compere, ma anche per uno scambio di saluti e di quattro chiacchiere, dimenticando la fretta e le mille incombenze quotidiane.